Santa Messa nel 14° anniversario della morte di monsignor Luigi Giussani

Questa sera ringraziamo. Questa celebrazione è ormai una piccola tradizione, che ci permette di condividere i doni– e non è poco -, di sentirci parte della Chiesa tutta e di essere riconosciuti nella storia e nel carisma della vostra- nostra esperienza. E poi, come diceva qualcuno che sapeva come solo i legami addomesticano l’uomo, i riti sono importanti, perché “tornare sempre alla stessa ora, sempre alle quattro del pomeriggio, permette che alle tre si cominci ad essere felice.  Mentre se uno viene quando gli pare, non sapremo mai preparare il nostro cuore”.
Ringraziare ci libera dal veleno dell’amarezza delle delusioni inevitabili, che smorza l’entusiasmo e non fa vedere con gli occhi dello stupore, gli unici che vedono. Si aprono quando sentiamo la gioia di essere amati gratuitamente, solo per amore. Ringraziare ci aiuta a liberarci dallo scetticismo, che entra surrettiziamente, senza che nessuno se ne accorga e spegne i sogni, allontana la speranza, fa confondere il cristianesimo con cristianità, tanto che solo quando questa ci sembra realizzarsi ci sentiamo sicuri o al contrario quando ci sembra venire meno pensiamo tutto perduto. Ringrazio e sento la gioia dell’inizio e della nuova ripartenza.

Il carisma ha dato valore alla nostra povera voce, ci ha cambiato e continua a rinnovarsi sorprendentemente in una scuola che forma e rigenera sempre la comunità, dove non smettiamo di imparare a conoscere quel mistero che sarà pieno solo all’ultimo incontro con Colui che è all’origine di tutto e il fine di tutto. Il ringraziamento è possibile tra un io e un tu, tra un noi e un tu. “Io sono Tu che mi fai “diceva Giussani. “Questa è la fonte della sicurezza suprema e nello stesso tempo dell’umiltà, dell’apertura e della gratitudine che fa vedere in ogni circostanza quel “TU “che ci viene incontro. “La vita non è qualcosa che se ne va ma Qualcuno che ti viene incontro”, diceva citando Moeller. Giussani parlava non di “traguardo raggiunto» ma di un’eterna “ripartenza”, tanto che reputava il lunedì il giorno più bello della settimana, “perché il lunedì si riinizia, si riinizia il cammino, il disegno, si riinizia l’attuazione della bellezza, della affezione”. C’è sempre, affermava, un “daccapo” da cui, come dei bambini, dobbiamo apprendere. Se la grazia ricevuta diventa abitudine, possesso e non amore si perde e la togliamo anche agli altri ai quali era destinata. Il dono è offerto perché lo condividiamo con la nostra vita e perché solo così diventa nostro.  Ed esso ha sempre la caratteristica di essere per tutti.
Come i discepoli anche noi sperimentiamo a volte il disorientamento di non riuscire a rispondere alle domande che ci vengono rivolte. Vorremmo farlo ma ci troviamo umiliati nella nostra limitatezza e questo nell’orgoglio genera delusione invece di crescita. In realtà siamo degli umili che possono compiere cose grandi, non dei grandi costretti a perdere qualcosa di sé! Essi non si rendono conto della speranza che pure è in loro, come avviene sempre se restiamo in Lui. In realtà quanta sofferenza nascosta incontriamo se siamo amici di Gesù, sofferenza che possiamo ascoltare ed alla quale offrire risposte. Nella secolarizzazione si nasconde in realtà una enorme domanda di amore e pur nell’analfabetismo religioso il cuore dell’uomo è, forse proprio per questo in maniera ancora più drammatica e personale, agitato dalla domanda di senso, di guarigione, di futuro per sé e per le persone amate.
Nel Vangelo abbiamo ascoltato questo padre che non può proprio accettare la sofferenza del figlio – che padre sarebbe? – e cerca da noi con le sue parole, in maniera confusa, una risposta. E’ un incontro che irrompe imprevisto nella comunità dei fratelli. “Il cristianesimo non è un gruppo d’amici che si separano dagli altri per chiudersi su loro stessi ma uomini trovati dal Signore che accettano i fratelli che il Signore dona loro». Il Vangelo parla di uno spirito muto, come avviene nella nostra generazione pur bulimica con le sue tantissime parole, ma che non sa comunicare. Quell’uomo non sa bene perché ma riconosce che “se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”.
Davanti a una richiesta come questa ed alla sofferenza che il padre ci presenta, quello che conta è rendere vero oggi lo stesso Vangelo che Gesù rivolse agli uomini, liberandolo da pesi inutili e rendendolo vicino, attraente, vero anche attraverso le nostre umanità. Sì,’ così si realizza l’avvenimento, che non è un lontano principio ispiratore o qualcosa di disincarnato ma al contrario si rinnova mediante il nostro io e noi. Giussani diceva che “non si può rimanere, da grandi, cristiani con una certa autenticità, se non attraverso l’esperienza di questo avvenimento, se non attraverso la coscienza dell’annuncio”. Non siamo noi il centro, ma è Gesù. Non aspettiamo rimandando o considerando gli altri perduti, ma incontriamo dove l’uomo sofferente vive, domanda, soffre. L’esperienza non diventa un fenomeno del passato; non si riduce ad una forma, perché il cristianesimo è sempre avvenimento. Quell’uomo non conosceva le parole della fede e Gesù lo aiuta perché la fede non è una condizione definitiva di astratta chiarezza, ma frutto di quell’incontro che si rinnova. «Credo; aiuta la mia incredulità!». Ecco che cosa può oggi la vostra fraternità: aiutare tanti analfabeti della fede a incontrare la speranza di cui essi stessi hanno bisogno, che hanno anche se devono essere aiutati, che possiamo rendere concreta insegnando a dire senza vergogna: io credo, aiuta la mia incredulità. Questo è possibile solo facendoci vicino all’uomo sofferente e vero com’è, e farlo senza filtri di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo paura di incontrare quell’uomo ed a fargli trovare le parole della fede. Ci aiuterà a ritrovare anche le nostre. Questa è la santità quotidiana che permette alla nostra vita di riuscire non come successo, ma come verità.
“Forse che fine della vita è vivere? Non vivere, ma morire e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la grazia, la giovinezza eterna”, ricordava Giussani. E per questo siamo attaccati alla compagnia che ci riunisce e che i realtà ci libera. Rendiamola vicina a tanti che incontriamo, muti o agitati da tante domande, con il desiderio di credere nella loro incredulità.
Madonna, aiutaci, tu che sei stata fatta madre di tuo figlio! Noi, figli tuoi, vogliamo seguir te e nascere, rinascere al sapore del tuo profumo e del tuo volto. Aiutaci, Madre nostra, ad essere sicuri nella evidenza della giornata che dobbiamo vivere: dolore o gioia; o dolore e gioia. Madre, Vergine, «Vergine madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio». A noi il Mistero si è rivelato e si rivela quotidianamente come l’Essere, come amore. L’Essere vuol dire amare, e per l’uomo ancora in vita, nella vita terrena, questo essere amato vuol dire essere perdonato. Il Signore ci aiuti, per l’intercessione di Maria, sempre nostra Madre.

25/02/2019
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