Il lavoro come opera

è necessario che esponga subito, a modo di premessa generale, la prospettiva

della mia riflessione. Necessario per me perché non accada che … un

calzolaio non si limiti a parlare solo di scarpe; necessario per voi perché non

rimaniate delusi in vostre eventuali aspettative.

La mia – comincio un po’ alla larga –  è una

prospettiva esclusivamente antropologica. In un duplice senso.

Sono sempre più convinto che le varie controversie che oggi travagliano

la coscienza occidentale nascono dalla radicale domanda sull’uomo: dalla

domanda sulla verità circa l’uomo. La mia riflessione dunque vuole

porsi dentro alla questione antropologica.

Volendo stringere più da vicino la “materia antropologica del

contendere”, penso che la vera posta in gioco oggi sia la categoria di

persona: la questione antropologica verte sul “principio-persona”.

Come è noto, questa categoria venne elaborata dal pensiero cristiano

per avere una comprensione vera e giusta dei due misteri principali della nostra

fede,

il mistero trinitario ed il mistero cristologico. Oggi essa è la chiave

di volta della controversia contemporanea circa il mistero dell’uomo.

Mentre la controversia antica era una controversia fra cristiani, la controversia

attuale è una controversia fra uomini alla quale i cristiani hanno particolari

titoli per parteciparvi, essendo coloro che dell’humanum hanno una bimillenaria

esperienza.

La mia riflessione quindi intende porsi dentro alla questione antropologica

in quanto questione circa la categoria di persona come chiave di volta della

nostra visione dell’uomo.

Quale è la porta attraverso la quale questa mattina intendo entrare

in questa controversia? Il lavoro. L’ipotesi in sostanza che intendo

verificare è che la riflessione sul lavoro è una delle strade

più adeguate per entrare nella verità dell’humanum, nella

sua più profonda ricchezza ed autenticità.

Vorrei mostrare che, positivamente, il rapporto persona-lavoro è tale

che in esso la persona prima e più che produrre dei beni,  dice

e  realizza se stessa; negativamente, vorrei mostrare che quando il rapporto

della persona col suo lavoro non si realizza nel  modo dovuto, il lavoro è uno

dei luoghi in cui più profondamente la persona perde se stessa.

Ho interpretato così la formulazione del tema «il lavoro come

opera»: il lavoro come atto della persona.

L’esposizione del mio pensiero percorrerà come due cammini che

sono come le due semi-circonferenze del medesimo circolo teoretico: dalla persona

al lavoro; dal lavoro alla persona.

Come intendere il «principio-persona» sulla base del

lavoro

La riflessione classica sull’agire umano, da Aristotele a Tommaso d’Aquino,

distingueva due forme di attività umana: l’azione “transitiva” e

l’azione “immanente” [Per Aristotile cfr. Met. Θ, 8

1050a.23; EN.Z  1140a.1; per Tommaso cfr. per es. Qq. Dd. de Veritate

q.8,a.6; q.14, a.3; C. Gentes II, cap. 1; cap. 23; III, cap. 22; 1,q.18, a.3,

ad 1um; q.54, a.2; 1,2, q.74, a.1; Qq. Dd. de Potentia q.3, a.15].

La prima connota un agire umano che ha un effetto, che produce qualcosa al

di fuori di chi agisce; la seconda connota un agire umano che ha il suo termine

ultimo nel soggetto stesso che agisce. Potremmo anche dire: il primo cambia

la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente

stesso.

Considerando però le cose con più attenta profondità,

ci rendiamo conto che nell’uomo non esiste un’attività talmente “transitiva” da

non essere anche sempre “immanente”. Quando l’uomo compie

qualsiasi opera, in qualche modo realizza se stesso e diventa se stesso; non

trasforma solo l’oggetto del suo operare, ma anche se stesso.

Questo inizio della mia riflessione, un inizio così ovvio da provarne

quasi vergogna, ci introduce però nella comprensione di una verità antropologica

assai importante, una verità che enuncerei nel modo seguente: priorità della

persona nei confronti del suo agire. Partendo cioè da una considerazione

ancora superficiale dell’agire umano inteso in tutta la sua estensione,

il «principio-persona» deve essere compreso come l’affermazione

della priorità dell’uomo nei confronti della sua azione, nei confronti

del suo lavoro. Vediamo dunque di precisare il significato di questa priorità.

Esso è duplice: significa due affermazioni circa la persona.

Il primo significato è di carattere ontologico, riguarda cioè la

priorità dell’essere della persona nei confronti del suo operare:

operari sequitur esse, dicevano gli scolastici [l’operare segue all’essere]. è la

persona a decidere circa il suo operare. Esiste cioè un “nucleo

intangibile”, l’io della persona, la sua interiorità sostanziale,

che non è il risultato casuale o necessario di forze impersonali che

la precedano e la costituiscono. L’autogenerazione mediante l’agire è frutto

della libertà della persona. è frutto dell’auto-determinazione

della persona. «Il termine auto-determinazione significa che l’uomo,

in quanto soggetto della sua azione, non solo la determina come agente (o come “causa

efficiente”), ma che attraverso questo atto egli determina contemporaneamente

anche se stesso» [K. Woitila, Metafisica della persona, ed. Bompiani,

Milano 2004, pag. 1440].

Vorrei ora dire la stessa cosa, esplicitare il primo significato in un modo

negativo. E lo faccio partendo da un testo di Aristotile il cui significato

oserei dire profetico non era sfuggito neppure a K. Marx (cfr. Il Capitale

I, cap. 13,3): “Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione

o dietro un comando o prevedendolo in anticipo (e) … così anche

le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani

non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi” [Politica,

A 4 1253 b 33 – 1254 a 1].

Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie

come propria auto-determinazione e quindi propria auto-realizzazione, esso

cessa di essere opera della persona: cessa di essere semplicemente umano. Quando

il lavoro non è più realizzazione della propria persona se non

in maniera indiretta, mediante cioè il salario che se ne percepisce,

in quanto non è più espressivo della persona, perché essa  non

comprende più il senso di ciò che sta facendo, è inevitabile

che il lavoro sia sperimentato come una schiavitù. L’agire diventa

sempre più transitivo e sempre meno immanente, la persona perde il suo

primato e viene come svuotata di se stessa. è un processo di degradazione

dalla sua priorità ontologica,  che la conduce alla schiavitù.

Che cosa è la schiavitù se non la condizione in cui la persona

come tale non conta più, e che quindi può essere scambiata con

una macchina quando è più vantaggioso farlo?

Abbiamo spiegato il primo significato della priorità della persona

nei confronti della sua opera. Vediamo ora quale è il secondo significato di

questa medesima priorità. Esso tiene maggiormente in considerazione

l’aspetto “transitivo” del lavoro, dell’operare umano.

è ovvio che mediante il suo lavoro l’uomo trasforma il mondo

in cui vive. Non intendiamo la parola “mondo” solo nel senso materiale,

come “natura” manipolabile dal lavoro dell’uomo. Intendiamola

anche e soprattutto come “ambiente” in cui l’uomo vive, come “dimora” che

egli costruisce col suo lavoro, colla sua opera. Il modo con cui l’uomo

si pone dentro alla realtà, si colloca nell’universo dell’essere,

e quindi si costruisce in esso la propria dimora, si chiama “cultura”.

Si istituisce quindi un rapporto molto profondo fra il lavoro come opera della

persona e la cultura di un popolo.

Considerando, intendendo la dimensione transitiva del lavoro in questo modo,

scopriamo una verità più profonda circa l’affermazione

del «principio-persona» nel mondo del lavoro. Vorrei ora riflettere

un poco su questo punto.

Nella società umana possiamo distinguere due elementi costitutivi,

due tipi di causalità.

Il primo elemento o tipo di causalità è materiale: gli uomini

si associano per la loro utilità; si associano perché vi sono

spinti dal bisogno. Nessun uomo basta da solo a se stesso. è il modo

umano con cui si realizza qualcosa che accade anche nel mondo animale. Anche

gli animali si associano spinti dal bisogno; la modalità umana consiste

nel fatto che si persegue un’utilità consapevolmente e liberamente.

La spinta della natura viene assunta dentro un consapevole, libero e programmato

movimento verso scopi precisi e condivisi. Questa condivisione di fini e di

mezzi crea già un’unità fra le persone, una unità spirituale,

ma essa non è che la proiezione nello spirito di un istinto materiale.

Ma questa non è la sola causalità che spiega la società umana.

Il secondo elemento o tipo di causalità è spirituale: gli uomini

si associano perché «quanto è buono e quanto è soave

che i fratelli vivano insieme», come dice un Salmo [133 (132), 1]. Se

il sociale umano non può prescindere dal primo elemento, è però l’elemento

spirituale che lo costituisce nel senso più profondo del termine, che

fa sì che la società sia veramente umana. La persona deve il

suo essere persona al suo essere spirito, e l’unità dei soggetti

spirituali si costituisce mediante la comunione nella verità e nel bene,

nell’amore. Solo questa unità … unifica senza distruggere

il molteplice, poiché – come scrive profondamente S. Tommaso – l’unità non

si oppone alla molteplicità ma alla divisione.

Questa duplice causalità “produttiva” della società umana

si riflette pienamente nell’agire, nell’operare della persona umana.

In ogni azione, in ogni opera umana noi possiamo distinguere ciò che

essa significa e ciò che essa produce. Ci sono attività la cui

unica ragione per cui sono fatte, è la comunicazione di un senso. Penso,

per esempio, all’opera d’arte. Essa è materialmente un prodotto,

il risultato di un lavoro umano. Ma il suo valore consiste esclusivamente in

ciò che significa, in ciò che comunica. Essa si pone nella comunione

interpersonale.

Ci sono invece attività nelle quali ciò che è prodotto è la

loro principale ragione d’essere, quando non l’esclusiva. Sono

i beni di consumo. è un’attività che si pone nel contesto

di quella che ho chiamato la “causalità materiale” della

società umana. Essa si pone nel contesto della comunicazione ratione

utilitatis.

Ora siamo in possesso di tutti gli elementi per cogliere il secondo significato

del «principio-persona» in rapporto al lavoro. Esso può essere

enunciato nel modo seguente: «principio-persona» significa che

tutto quanto è prodotto dal “principio materiale” deve essere

inserito nel, e subordinato al “principio spirituale”. Vorrei ora

riflettere brevemente su questo significato.

Esso non nega il valore delle categorie-cardine del sistema economico, produzione

e consumo, ma le contestualizza in una visione antropologica che impedisca,

teoreticamente e praticamente, di fare perfino della persona umana un mero

elemento del sistema “produzione-consumo”. Che impedisca una visione “produttivistica-consumistica” dell’uomo.

Più profondamente. Il movimento attraverso il quale la persona mediante

la sua opera si esteriorizza [dimensione transitiva dell’operare] esige

il movimento inverso mediante il quale la persona è se stessa, non perde

se stessa nel suo operare. La superiorità della persona [altra formulazione

del «principio-persona»] «si identifica con il riconoscimento

di ciò che è intransitivo nell’operare dell’uomo,

che condiziona il suo proprio valore e nello stesso tempo costituisce la “qualità” umana

del suo valore. L’“intransitivo” è quindi più importante

di ciò che è “transitivo”, che si obiettivizza in

qualche prodotto e che serve alla trasformazione del mondo, oppure al suo sfruttamento!» [K.

Woitila, Metafisica della persona, cit., pag. 1452].

Il Concilio Vaticano II aveva già posto il problema nei suoi termini

essenziali quando constatava: «si moltiplicano i rapporti dell’uomo

con i suoi simili e a sua volta questa “socializzazione” crea nuovi

rapporti, senza tuttavia favorire sempre una corrispondente maturazione della

persona e rapporti veramente personali (“personalizzazione”)» [Cost.

past. Gaudium et spes 6,5; EV 1/1336]. Il processo di “socializzazione”,

stimolato da ciò che ho chiamato la causalità materiale della

società umana [industrializzazione, produzione, consumo], è chiamato

ad inscriversi in un corrispondente processo di “personalizzazione”.

Se al primo non corrisponde il secondo, il lavoro cessa di essere opera della

persona. Né vale appellarsi al fatto incontestabile che in ogni caso

l’umanità ora si trova in possesso di una quantità di beni

mai prima avuta. A parte il fatto che non si deve ignorare il problema di un’equa

distribuzione della medesima, non si deve confondere ciò che è condizione

perché  la vita umana possa essere umana con ciò che decide

che la vita umana sia veramente umana.

Ancora una volta il Concilio Vaticano II aveva individuato chiaramente il

problema quando aveva scritto: «L’uomo vale più per quello

che è che per quello che ha … Pertanto questa è la norma

dell’attività umana: che secondo il disegno di Dio e la sua volontà essa

corrisponda al vero bene dell’umanità, e permetta all’uomo

singolo o posto entro la società di coltivare e di attuare la sua integrale

vocazione» [ibid. 35; EV 1/1428-1429].

Il testo conciliare introduce il tema della cultura [integrae vocationis cultum];

essa è un concetto sintetico. Attraverso il lavoro inteso come opera

della persona si costruisce una vera cultura poiché la persona umana

può coltivare e realizzare [impletio, dice il Concilio] la sua umanità.

Si pone nella realtà in modo adeguato alla sua dignità: questa è la

cultura. Quando ciò accade, il lavoro è veramente opera della

persona.

Quando ciò non accade, l’uomo mette seriamente in pericolo se

stesso proprio mediante ciò che lo esprime, il suo lavoro. L’ipnosi

dell’avere lo anestetizza dalla tragica sofferenza della perdita dell’essere:

questo è ciò che oggi non raramente accade. Come svegliare l’uomo

da questa ipnosi? è questa una domanda essenziale perché l’uomo

possa rientrare dall’esilio; dall’esilio di se stesso. Una via

fondamentale di ritorno è il suo lavoro; o comunque questo ritorno non

può accadere a prescindere dal lavoro. Ma con questo sono già entrato

nella seconda parte della mia riflessione.

Come intendere il lavoro sulla base del «principio-persona».

Nella seconda parte della mia riflessione vorrei in un certo senso fare il

percorso inverso a quello compiuto nella prima. Non più intendere il «principio-persona» sulla

base del lavoro, ma piuttosto intendere il lavoro sulla base del «principio-persona».

Non più entrare nella comprensione della persona attraverso il lavoro,

ma entrare nella comprensione del lavoro attraverso la persona. In concreto:

quali conseguenze ha nel “mondo del lavoro” il «principio-persona» di

cui abbiamo esplicitato i due significati fondamentali? Cercherò di

rispondere a questa domanda.

Lo farò non andando alla ricerca di una risposta completa, di cui non

sarei capace. Mi limiterò ad alcune considerazioni, possibili corollari

di ciò che ho detto prima. Gli interventi infatti che seguiranno, si

costruiranno in questa prospettiva, e con ben altra competenza che la mia.

Il primo corollario, il più importante credo, è che la preparazione

della persona al lavoro non è in primo luogo né principalmente

in ordine al “sapere fare”, ma al “saper essere”. L’educazione

integrale della persona è la prima conseguenza di tutto ciò che

ho detto.

Non voglio ora riesporre la visione cristiana dell’educazione. La considero

nota. Il «principio-persona», come ho detto nella prima parte della

mia riflessione, significa in primo luogo il primato della persona nei confronti

del suo agire, la sua non totale riducibilità alla sua opera.

Perché la persona custodisca intatto questo primato, essa deve essere

immunizzata da due insidie. L’insidia che viene da un’esperienza

del lavoro individualisticamente inteso come puro scambio di beni in vista

del proprio interesse; e l’insidia che viene da un’esperienza del

proprio lavoro strutturalmente inteso come un semplice ingranaggio all’interno

di una struttura dotata di una sua propria autonomia. Come si esce vittoriosi

da questa duplice insidia? La mia risposta è: attraverso una vera educazione

della persona alla libertà.

Mi spiego partendo da una tesi centrale nel pensiero filosofico di Giovanni

Paolo II, che condivido pienamente. La tesi è la seguente. Il dinamismo

proprio della scelta libera non consiste solamente nel muoversi o dirigersi

verso quel bene/valore che motiva la scelta stessa. Esso consiste anche e principalmente

nella decisione di determinare o configurare se stesso mediante la scelta che

sto compiendo. La scelta della povertà che Francesco ha compiuto è consistita

principalmente nella decisione di con-formare se stesso a Cristo: nella scelta

della povertà è implicata un’auto-determinazione. Una decisione

circa il proprio modo di essere.

L’esempio da me scelto non è casuale. A prima vista infatti questo

modo di pensare l’esercizio della libertà potrebbe farci pensare

ad una visione “solipsistica” della persona: il proprio io è fine

e confine del proprio operare. In realtà non è così: «l’uomo

non è il confine dell’autodeterminazione, delle proprie scelte

e dei propri atti di volontà, indipendentemente da tutti i valori verso

i quali quelle scelte e quegli atti della volontà si rivolgono» [K.

Woitila, Metafisica… cit. pag. 1413]. L’uomo non si chiude in

se stesso, ma proprio autodeterminandosi entra in un contatto vivo con l’intera

realtà. Nello stesso tempo questo contatto vivo ha luogo – deve

avere luogo – all’interno della persona; all’interno della

sua scelta libera nella quale il contatto colla realtà prende inizio,

sulla quale si fonda, alla quale conferisce forma.

Questo modo di operare genera una vera partecipazione nella stessa umanità,

un vera comunità umana, inattaccabile dal rischio della alienazione

presente sia nelle società neo-liberiste sia nelle società neo-stataliste.

Ora persone capaci di essere ed agire liberamente possono essere generate

solo da una prassi educativa che intenda l’educazione come introduzione

alla realtà, e non come istruzione a “sapere fare”. «Non

c’è, infatti, alcun dubbio  che il lavoro umano abbia un

suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato

al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole

e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso» [Giovanni

Paolo II, Lett. Enc. Laborem exercens 6,3; EE 8/229]. Questa verità nel

magistero della Chiesa viene indicato come «lo stesso fondamentale e

perenne midollo della dottrina cristiana del lavoro umano» [ibid.]. E

questo “midollo” dice per sua natura ordine alla necessità di

una teoria e prassi educative che precisamente siano capaci di generare una

persona, cioè “un soggetto consapevole e libero”, “un

soggetto che decide di se stesso”.

Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su un altro fatto oggi bisognoso

di urgente attenzione, che possiamo e dobbiamo considerare sulla base del «principio-persona»:

il fatto della immigrazione per lavoro. Mi limito ad alcune osservazioni, e

così concludo.

Il «principio-persona» significa che l’immigrato per lavoro

non abbia un trattamento di svantaggio nel mondo del lavoro in confronto degli

altri.

Tutto ciò che abbiamo detto finora vale esattamente e nella stessa

misura sia per l’immigrato sia per ogni altro lavoratore: lo status di

immigrato non giustifica che il lavoro di questi debba essere misurato nel

suo valore con metri diversi da quello con cui si considera il lavoro degli

altri.

Una conseguenza di questo è la necessità di contrastare – secondo

le responsabilità di ciascuno – il “lavoro nero”,

vero scandalo morale e sociale.

Che tutto questo che ho detto sull’immigrazione per lavoro significhi

da ogni punto di vista compreso quello legislativo, non è di mia competenza

il dirlo.

Conclusione

L’ingresso nel mistero della persona attraverso la riflessione sul lavoro è una

via maestra, non una porta di servizio. L’ingresso nell’intelligenza

e nell’organizzazione del lavoro attraverso il «principio-persona» è l’unica

modalità adeguata di pensare e realizzare l’agire umano. La connessione

persona-lavoro è il «fondamentale e perenne midollo della dottrina

cristiana del lavoro». La tragedia in cui viviamo è di avere rotto

questa connessione: la “transitività” è cresciuta

in misura gigantesca ma non pervasa dall’“immanenza”  della

persona. In altri termini: la crescita dell’avere non ha comportato una

crescita nell’essere. Un mondo così fatto è un mondo dato

in preda al desiderio e/o alla paura.

Il lavoro è uno dei luoghi fondamentali in cui l’uomo oggi è posto

di fronte al dilemma fondamentale riguardante il suo futuro: o far sì che

la persona mediante il suo operare ritrovi se stessa o lasciare che l’operare

finisca col consumare pienamente la persona.

Non sono le utopie che devono guidarci; non è la rassegnazione. è l’insonne

fatica di unire la dimensione transitiva colla dimensione immanente dell’agire

umano; assicurare la reciprocità delle persone nella co-operazione del

lavoro.

11/02/2005
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