Tutta la nostra vita è resa santa non dai nostri meriti ma dalla presenza – della quale siamo a tratti consapevoli, ma più frequentemente ne abbiamo poca coscienza, come sonnambuli anche in questo – dell’amore di Cristo. Non si capisce Gesù senza “sentire” il suo amore. È questo che risponde all’attesa, che è la domanda che attraversa tutta la nostra esistenza personale. Don Carlo ha cercato Gesù. Racconta don Sandro Laloli che in seminario una notte don Carlo lo svegliò ponendogli la domanda: “Chi è per te Gesù?”. Era molto contento di parlarne, un po’ meno dell’orario! In realtà è la richiesta che ci accompagna sempre: “Vogliamo vedere Gesù”, chiesero ai discepoli. “Il tuo volto, Signore io cerco”. L’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. “E dalle sue attese l’uomo si riconosce. La nostra statura morale e spirituale si può misurare da ciò che attendiamo, da ciò in cui speriamo”, diceva Papa Benedetto XVI. È attesa, non è certo agitazione insoddisfatta o pigro fatalismo. Cerchiamo luce nel buio, sazietà nella fame, indicazione nell’incertezza angosciosa, compagnia nello sconforto della solitudine, sicurezza nella paura, nella vertigine della vita. Ecco, oggi finalmente don Carlo incontra il volto di Dio, di quel Signore che ha amato, cercato, indicato, e la cui presenza, attraverso i segni dei sacramenti, ha offerto, direi regalato, con disponibilità totale. Come la confessione alla quale era disponibile sempre, fino a quando ha potuto, anche quando, per certi versi, non avrebbe potuto!
Oggi è la Pasqua di don Carlo che ci ha lasciato con la palma della sua gioiosa e totale accoglienza a Gesù, che viene e che lo porta con sé perché sia accolto nella Gerusalemme del cielo. In questo saluto siamo aiutati a comprendere la grandezza della nostra fede, il senso della passione di Gesù, il suo combattimento, perché il nostro combattimento non sia più da soli. Si muore soli, ma abbracciati dalla sua croce, sostenuti dal suo amore che diventa luce che illumina il buio della nostra. Gesù soffre solo per amore. Anche noi come Simon Pietro gli domandiamo: “Signore, dove vai?”, che significa anche “don Carlo, dove va?”. Vale anche per noi la risposta di Gesù che ricorda, a lui e a noi, che lo seguirà, che attraverserà la porta che è Gesù stesso. Lo seguiamo tutti come Pietro, segnati dal nostro peccato che è l’egoismo, l’orgoglio del quale Pietro appare inconsapevole ma di cui è consapevole Gesù. Gesù non lo considera come una condanna, anzi, è un punto di partenza perché per lui tutto deve cooperare al bene. La vita non è un cerchio che si chiude tristemente su se stesso, a ratificare che in realtà si vive per sé, ma è una via che cerca il suo compimento e non trova se stessa finché non l’ha trovato. La vita va verso l’essere una cosa sola con Gesù, giudice giusto, ma anche “l’amico e il fratello, che ha già sofferto egli stesso per le nostre mancanze, ed è quindi anche il mio avvocato, il nostro Paraclito”. Diceva di sé Papa Benedetto XVI, e questo aiuta ciascuno di noi a capirlo: “Alla luce dell’ora del giudizio, la grazia di essere cristiano mi diventa tanto più chiara. Mi dà conoscenza, anzi, amicizia con il giudice della mia vita, e così mi permette di passare fiducioso attraverso la porta oscura della morte”. La solitudine drammatica, abissale, dell’uomo è annullata proprio dalla Sua solitudine, resa amara dal sonno dei discepoli e dalla preghiera gridata dalla croce che interroga Dio, dal quale si sente abbandonato perché, come abbiamo ascoltato dal profeta, ci sembra che “invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze”.
Gesù ha tenuto accesa la sua luce e ce la affida perché si compia anche per noi la promessa “antica”: “Ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”. Don Carlo ha tenuto accesa la sua luce e l’ha riflessa e donata a tanti, con il suo tratto diretto, burbero e in realtà sensibilissimo, contestatore come lo ricordiamo. Era in realtà esigente nel prendere sul serio il Vangelo. Nella sua debolezza più grande ha trovato proprio quello che cercava, e la fraternità vissuta con i due Simone è stata un piccolo anticipo della gioia di comunione del paradiso. La celebrazione dell’ordinazione sacerdotale di Simone “il piccolo” e la sua attenzione a scegliere proprio Carlo per vestirlo – e ringrazio ancora Simone di averlo fatto – fu per lui motivo di grande orgoglio, di fierezza e di commozione grande, anche per noi. Quando diciamo “amatevi gli uni gli altri” parliamo di questo, del mistero di amore che celebreremo il Giovedì Santo, sacramento dell’amicizia di Dio con noi, e nostro con lui e tra di noi. Sacramento vuol dire concretezza, sensi, corporeità. Carlo con tanta pazienza e umiltà ha accolto la sua fragilità. Soprattutto in questi mesi, in cui un male diffuso cresceva dentro di lui, ha accettato tante limitazioni e umiliazioni, sempre chiedendo scusa per il disturbo che, a suo dire, arrecava ai preti che erano in canonica con lui. Ed è stato assistito con infinita dedizione e gentilezza dalla nostra “perpetua” Nicoletta, dalla sorella Lucia e dalla nipote Isabella.
Oggi vede e vediamo la gloria, quella che abbiamo ascoltato dal vangelo. Quanto è diversa la gloria di Dio da quella degli uomini! Si rivela pienamente sul Tabor, nella gloria di amore, di solo amore, interamente donato. È la gloria di amore dato e ricevuto, gratuitamente. La gloria per Carlo era la celebrazione con i detenuti di Castelfranco, la bellezza di ogni celebrazione liturgica che aveva imparato ad amare nella sua grandezza con il Concilio, e al quale aveva conformato – con una certa libertà – tutta la sua vita presbiterale. La sua gloria era la sincerità, il modo che non aveva inganno, come Natanaele del Vangelo. La gloria erano i due Simone, don Mario e don Silvano invitati da don Simone a pranzo per vivere la comunione, stando insieme a conversare per più di tre ore. È la gloria che ha vissuto tanto nella sua numerosa e solida famiglia, con dei santi genitori, con Suor Corrada delle Minime, le tante discussioni tra fratello e sorella, unendo sempre molta generosità e attenzione verso tutti. Era il quarto di una numerosa famiglia decimina di otto fratelli e venti nipoti! Lucia (che abita a Castagnolo e che lo accudiva), i due fratelli falegnami di Decima, Marco e Lorenzo, e Maria, che 50 anni fa don Arrigo Chieregatti unì in matrimonio con Adel, cittadino del Kuwait, dove attualmente risiedono e da dove sono venuti due dei suoi tre figli, Anvar e Khalid. La sua gloria era la passione per la giustizia, perché istintivamente difendeva i più deboli, cercava i più “lontani”, era vicino ai più marginali, compassionevole con i malati e i sofferenti. Una ricerca autentica di Gesù e un amore per una Chiesa diretta, fraterna, familiare, giusta. Quando il Card. Lercaro dovette lasciare il suo ministero episcopale a Bologna c’era anche lui con un gruppetto di seminaristi a chiedere al rettore Ancarani di poter andare, per esprimergli solidarietà. Pochissimi giorni fa, ai suoi compagni che gli chiedevano come stava, diceva che per fortuna ancora non sentiva dolori e, soprattutto, che oltre a qualche confessione, e oltre a concelebrare in carrozzina, era contento di poter pregare personalmente di più per la grande e fraterna assistenza che riceveva. Non era ideologico. Cercava e amava una Chiesa viva, come quella dei Cursillos (cui era grato per un salto di qualità nella sua professione di fede). Era un uomo del generoso e disponibile servizio, tanto che quando aveva qualcuno davanti era tutto per lui, non sentiva nemmeno la fame! Era lo stesso nella vita di tutti i giorni, con le contraddizioni circa La Casa dei Giovani, che tante volte lo cercavano anche per un consiglio, una confessione, un gelato. Le sue energiche e calde omelie, in cui raccontava della sua infanzia un po’ da monello, sapevano affascinare i piccoli e scaldare i cuori dei grandi. Le sue storie, le sue avventure, le sue preghiere in dialetto, riempivano la canonica e ci aiutavano davvero a fare famiglia. Da questi racconti emergeva in modo preponderante una modalità semplice di rappresentare Gesù, di farlo vedere, di vivere il suo ministero, nella cura delle relazioni e nell’attenzione anche alle frange più lontane e apparentemente ostili alla Chiesa. Con coraggio don Carlo sapeva come sfondare muri e creare ponti. Non ha mai smesso di farlo e, anche se aveva certamente del male per il tumore che lo stava invadendo, diceva sempre di stare bene; ha celebrato e poi concelebrato con grande sacrificio fino ad una settimana fa.
Grazie, caro don Carlo, per la tua libertà e passione evangelica, per la Chiesa, per la città degli uomini. Faccio mia la parte finale del tuo testamento, così diretta e importante: “A tutti vorrei dire anche di ringraziare il Signore ogni sera per la vita che ci ha dato, ma soprattutto perché ci ha dato la capacità di poterci amare reciprocamente”. Sempre con gioia!
