Omelia nella Messa in ricordo del sacrificio del beato Rosario Livatino

Lasciamoci guidare, come deve essere sempre per i cristiani, dalla Parola di Dio, non addomesticandola ma, anzi, facendoci addomesticare da lei. In quanto ci rende capaci di capire il mistero della vita ascoltando il suo Autore. La Parola di Dio ci rende umani, “esperti di umanità”, come solo l’amore ricevuto e dato può permettere. E la Parola è Parola di amore, rende il mondo amico e noi amici del mondo e dell’altro, così che se la ascoltiamo e la prendiamo sul serio l’altro non rimane uno sconosciuto, un estraneo, un nemico, ma diviene il mio prossimo. Cioè cambia tutto. E anche Dio diventa finalmente il nostro prossimo e non un’entità mutevole a cui facciamo dire quello che vogliamo, un’imperscrutabile volontà che sentiamo assente o troppo indifferente, diventa il nostro primo prossimo, il più vicino. Ci lasciamo aiutare dal Beato Rosario Livatino che ha vissuto mettendo in pratica la Parola, senza sconti e accomodamenti. Con lui ricordiamo tutti i magistrati e gli operatori della giustizia che sono morti a causa del loro servizio. La memoria di Livatino ci aiuta a ricordare anche tutti loro. Livatino ci aiuta a capire come la Parola può trasformarci e aiutare tutti, tutti, ad essere servitori della giustizia, fondamento del bene comune, senza la quale è impossibile la vita civile e la difesa della persona. La guerra genera tutte le ingiustizie perché la giustizia è la prima vittima della guerra che rende tutto possibile e, spesso, impunito. Pace e giustizia sono sempre vicine e una ha bisogno dell’altra. Sono inseparabili! E se la giustizia è in difficoltà, anche la pace è minacciata!

Gesù non è affatto compiacente verso le persone. Non accoglie in maniera strumentale e superficiale gli entusiasmi senza radici, non gioca con le emozioni: genera persone e, quindi, interiorità. Temo che la nostra generazione giochi perpetuamente con le emozioni e si applichi poco nella faticosa ma fondante interiorità, che ha bisogno di sforzo, che esprime quello che abbiamo di più personale, che ci aiuta anche trovarlo e a capirlo. Gesù non cerca followers. Certo non fa nemmeno il contrario, come certi moralisti esigenti verso gli altri e indulgenti verso di sé, ipocriti, che chiedono di applicare le regole ma non spiegano perché, che fanno i professori ma non aiutano e non amano. Gesù vive, ama e ci spiega qual è la sua vita che poi, in realtà, è la nostra, e ci insegna a vivere! Gesù ci rende consapevoli che stare con Lui non significa starsene tranquilli come chi cerca amore per sé, perché il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Perché? Perché lui ama e prepara un posto a noi che in realtà non lo abbiamo, perché per l’uomo i giorni sono “come l’erba”, “come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più, né più riconosce la sua dimora” (Ps 103,15). E il vento che ci fa perdere il nostro posto sappiamo quanto è forte e quanto umilia la nostra fragilità, come quelle della malattia, dell’inimicizia, della violenza. Il Figlio dell’uomo ama e ci ama e, quindi, cerca un posto proprio nel nostro cuore e ne preparare uno proprio per noi in cielo.

Gesù sembra esagerato nelle sue richieste, così esigente da apparire Lui disumano! Ma è solo amore e ci insegna ad amare. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». Il Signore non viene a tranquillizzare l’esistente, ma a cambiarlo. Abituati come siamo al compromesso, agli accordi al ribasso nella stolta idea di conservare noi stessi, perché siamo pieni di paura e poco abituati ad amare e molto di più a possedere, pensiamo di star bene chiudendoci e così finiamo per assecondare il nostro istinto superficiale. «Occorre preoccuparsi di non essere morti, anziché preoccuparsi di seppellire i morti», cerchiamo con Lui la vita per non restate prigionieri del passato. Chi trova Lui trova tutti, ritrova i vivi e anche i morti! L’invito a non voltarsi indietro è quello di non restare a guardare ciò che ti manca, ma di guardare ciò che viene donato, che abbiamo davanti. Non riempiamoci quindi di nostalgia; non passiamo la vita a interpretarci, ma cerchiamo il futuro, consapevoli, e guardando avanti. La fede, che è affidarsi all’amato, non richiede un pezzo del nostro cuore ma tutto, come l’amore vero che non accetta comprimari. Un amore così insegna ad amare tutti, compresi i nostri familiari e i nostri morti. Chi segue Gesù li amerà di più non di meno! Sii libero, perché così tutto diventa un legame di amore, troverai tanti posti nei cuori e troverai il cuore. Non si ama tra tanti amori: quando si è trovato l’amore, quello con l’articolo determinativo, è questo che poi determina tutto il resto. Abituati come siamo a tenerci aperte tutte le possibilità, a fermarci alle prime difficoltà, possiamo seguire Gesù solo perché pieni di amore. Non si tratta quindi di una rinuncia ma di una scelta che mi fa fare tutto perché ho trovato qual è la cosa più importante di tutte. Nella confusione della nostra vita chi mette al primo posto l’amore di Dio accende di amore il prossimo e, finalmente, trova il vero amore per se stesso.

Ci aiuta Livatino. Semplice ed essenziale. Lui scelse non qualcosa ma Qualcuno, non di amare un po’ ma tutto e ci aiuta a comprendere il diritto relativizzandolo al prossimo. Il diritto è un mezzo per difendere la persona e la vita comune. Quando firmò prestò giuramento per la Magistratura e scrisse: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”. Lo faceva con estrema compostezza e grande serietà, con modestia profonda e interezza. Il 7 aprile 1984 Livatino parlò del “ruolo del giudice nella società che cambia” in una conferenza promossa dal Rotary Club di Canicattì, suo testamento spirituale. “L’indipendenza del giudice – scriveva Livatino – non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori dalle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni in ogni momento della sua attività…” Siamo quello che siamo. E con grande sapienza commentò: “Solo se il giudice offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dovere raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole…”. Le decisioni prese nella profondità della coscienza e davanti a Dio ce la fanno trovare con più profondità e larghezza. “Compito del magistrato – disse allora Rosario Livatino – non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine…”. Livatino relativizza la giustizia alla persona: “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità”, perché la legge è un mezzo e non un fine…”. Un tratto che senz’altro è una lezione per tutti, perché fuggiva da ogni protagonismo e, con ogni mezzo, la notorietà, senza nessun atteggiamento da superuomo, anzi aveva quella grande virtù che serve per essere grandi: l’umiltà. E questa, solo questa, spiega il “S.T.D.” Sub Tutela Dei, la nostra grande sicurezza. Mi ha colpito che Rosario amasse molto il silenzio e la solitudine. “Abbiamo bisogno di silenzio interiore – soleva egli dire – per scoprire il senso ultimo delle cose, per incontrarci con noi stessi, per incontrare Dio…”, ideale che valse più della vita e che ci fa vivere già oggi quello che non finisce. “Coloro che avranno indotto molti alla giustizia, risplenderanno come stelle per sempre” (Dn 12, 3).

Vorrei concludere con le parole che Papa Leone XIV ha rivolto agli operatori della giustizia in occasione del loro Giubileo, pochi giorni or sono. “La giustizia, infatti, è chiamata a svolgere una funzione superiore nell’umana convivenza, che non può essere ridotta alla nuda applicazione”. Non possiamo mai essere solo compilativi, come non possiamo essere condotti dalla superficialità, perdendo la lettera! “La giustizia evangelica, quindi, non distoglie da quella umana, ma la interroga e ridisegna: la provoca ad andare sempre oltre, perché la spinge verso la ricerca della riconciliazione”. Se la spingiamo verso una presunta perfezione di applicazione si diventa giustizialisti e facilmente sperimentiamo l’iniuria peggiore, proprio perché perpetrata con la giustizia! Continua, invece, il Papa: “Il male, infatti, non va soltanto sanzionato ma riparato, e a tale scopo è necessario uno sguardo profondo verso il bene delle persone e il bene comune. Compito arduo ma non impossibile per chi, cosciente di svolgere un servizio più esigente di altri, si impegna a tenere una condotta di vita irreprensibile. Come scriveva Sant’Agostino: «La giustizia non è tale se non è nello stesso tempo prudente, forte e temperante». Ciò richiede la capacità di pensare sempre alla luce della verità e della sapienza, di interpretare la legge andando in profondità, oltre la dimensione puramente formale, per cogliere il senso intimo della verità di cui siamo al servizio. Quando si esercita la giustizia, infatti, ci si pone al servizio delle persone, del popolo e dello Stato, in una dedizione piena e costante. La grandezza della giustizia non diminuisce quando la si esercita nelle cose piccole, ma emerge sempre quando è applicata con fedeltà al diritto e al rispetto per la persona in qualunque parte del mondo si trovi”. Che sia così. Per sperimentare già oggi la beatitudine di un servizio decisivo per il mondo, che altrimenti accetta l’ingiustizia, si fa catturare dalla globalizzazione dell’impotenza e finisce per pensare che il male vinca. «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati» (Mt 5,6).

Cortile d'Onore della Suprema Corte di Cassazione - Roma
01/10/2025
condividi su