Direttore dell'Ufficio comunicazioni sociali della Cei

Ascoltare con l’orecchio del cuore: intervista a Vincenzo Corrado

Ascolto, deontologia e verità per una comunicazione dinamica

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Pubblichiamo l’intervista a Vincenzo Corrado, Direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, intervistato durante una recente visita a Bologna, pubblicata sull’edizione di Bologna Sette del 17 luglio

Anche nel 2022, come ogni anno, il Papa ci ha dato un significativo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali. Quali sono le sollecitazioni più importanti?

Credo che il primo aspetto del messaggio da sottolineare stia proprio nel titolo «Ascoltare con l’orecchio del cuore». Un tema che è sviluppato all’interno del testo e consegna in dote ai giornalisti, ai comunicatori e a tutte le persone di buona volontà il primo ingrediente della comunicazione, che è l’ascolto.  Recuperare la dimensione dell’ascolto significa collocarsi in una comunicazione che non è semplicemente digitale, oppure che avviene con il passaggio dei dati che costituiscono l’oggi comunicativo. Si tratta, piuttosto, di un messaggio che ci riconsegna il compito di tessere un rapporto attraverso l’ascolto che si apre alla relazione. Un ascolto, quindi, che non è semplicemente un sentire, un udire, ma un andare in profondità delle storie. Il Card. Matteo Zuppi, appena eletto presidente della Cei, mi ha colpito con una frase che ha utilizzato: «Bisogna lasciarsi ferire dall’ascolto». Credo che nel momento in cui uno ascolta veramente, porta nel proprio vissuto, nella propria carne, le ferite che questo ascolto genera, che non sono solo di sofferenza, ma anche di gioia, di speranza, di apertura, di accoglienza di ciò che è vicino a noi.

Quali sono gli elementi che più contraddistinguono il modo di operare dei comunicatori cattolici, anche rispetto ai loro colleghi, pur nella comunanza della professione?

Credo non ci siano comunicatori o giornalisti che vengono distinti dagli aggettivi, quasi a classificarli. Penso che il buon giornalista sia il buon comunicatore e sia innanzitutto tenuto al rispetto delle regole etiche e deontologiche che la professione richiede. Non sono mai delle imposizioni, ma una sorta di «cartina geografica» per orientarsi all’interno di una professione che è in continua evoluzione. Per il giornalista e il comunicatore cattolico poi c’è un di più, e quel di più viene dal dono della fede, dalla capacità di leggere la storia attraverso il Vangelo. Papa Francesco, nei giorni scorsi, incontrando la Compagnia di San Paolo diceva che il comunicare più che una professione è una vocazione, e credo che questo sia determinante per il comunicatore cattolico. Riscoprire questa missione, anzitutto come vocazione, significa riscoprire la propria identità. Attraverso la nostra identità di battezzati abbiamo quel di più che ci permette di vivere meglio la nostra professione.

Seguendo il messaggio del Papa, quali sono invece i problemi più grandi che oggi la comunicazione, in particolare una comunicazione cristianamente ispirata, deve affrontare?

Credo che il problema più grande siano la disinformazione, le notizie false, le fake news che alimentano l’odio sociale, le fratture e le divisioni. Il nostro impegno primario, quindi, deve essere, in questo momento particolare, una comunicazione che, attraverso l’utilizzo dei cinque sensi, riscopra il vero “senso” della propria missione e del proprio operato. Le fake news rappresentano un inquinamento della fonte viva e zampillante della verità. E per noi la verità rappresenta anche qualcos’altro, una persona. Attraverso, quindi, la nostra professione dobbiamo cercare il volto di colui che è la Verità in quelle persone che rimangono ai margini dei grandi circuiti informativi. Credo sia una missione a cui non possiamo sottrarci.

C’è forse oggi un altro senso in più che è quello della comunicazione digitale. Che uso dobbiamo fare della comunicazione digitale, web…?

Dobbiamo farne uso e sicuramente non dobbiamo abusarne. Dobbiamo partire da una precondizione che ci deve accompagnare: il digitale non rappresenta più «qualcosa d’altro», è l’ambiente in cui viviamo, in cui ci misuriamo quotidianamente, in cui le giovani generazioni, non solo i nativi digitali, ma quelli che hanno fatto seguito ai nativi digitali, vivono già. Noi siamo chiamati, pure attraverso l’impegno di una scoperta, di una formazione, di una conoscenza dell’ambiente digitale, a tessere le fila, la trama di un dialogo anche tra le generazioni che sicuramente il digitale può accompagnare, e forse può anche favorire.

Qual è oggi il compito degli Uffici per le Comunicazioni sociali diocesani, come il nostro di Bologna, e come rimodularne la presenza, cercando di creare tre di noi un progetto sinergico e di formazione?

Da quando sono direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Cei, uno degli impegni primari è proprio quello di tessere dei rapporti diretti con quelli diocesani, per poter favorire questo scambio dinamico che la comunicazione comporta. E credo che in questo momento sia molto importante anche favorire una sorta di circolarità della comunicazione all’interno delle nostre diocesi. Bologna in questo è stata all’avanguardia, proprio nel favorire un progetto di comunicazione che possa essere anche modello per altre realtà. In questi due anni, ma già precedentemente, abbiamo avuto modo di conoscere al meglio diverse situazioni, di poter implementare una comunicazione che non sia intesa in maniera statica o museale. La comunicazione è dinamica proprio perché è capace di vivere la storia non semplicemente adattandosi, ma riuscendo a «leggere» quelli che si chiamano i segni dei tempi all’interno di una storia che è in continuo mutamento. Quindi è importante sentirsi un Ufficio comunicazioni dinamico, non semplicemente guardando al proprio passato. Credo che sia molto importante, proprio perché le mutazioni che anche le nuove tecnologie favoriscono chiedono grande capacità di adattamento alle novità. Questa penso sia non semplicemente una riflessione, ma anche un augurio ad ogni Ufficio per le comunicazioni diocesano: di non vivere il proprio impegno in maniera sedentaria, ma di viverlo con l’impulso verso la novità che il presente rappresenta.

A cura di Chiara Unguendoli

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