Cultura e Società

Bologna, città ricca e inquieta

A colloquio con Giorgio De Rita, segretario generale del CENSIS

 

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BOLOGNA – Venerdì 26 gennaio in Cappella Farnense si è parlato del lavoro che cambia la vita, delle comunità, delle relazioni, dell’utilizzo del tempo e del reddito, in occasione della presentazione del Rapporto «Il senso del lavoro nella comunità produttiva e urbana di Bologna» a cura del Censis, in collaborazione con Philip Morris Italia.

All’evento, moderato dal vice direttore di «Avvenire» Marco Ferrando, ha portato il suo saluto il cardinale Matteo Zuppi insieme al sindaco Matteo Lepore. Gli interventi sono stati di Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, Marco Hannappel, presidente ed amministratore delegato di Philip Morris Italia, Maurizio Lupi, presidente della Fondazione «Costruiamo il futuro», e Giovanni Molari, rettore dell’Alma Mater. Le conclusioni sono state affidate a Marina Elvira Calderone, ministro del Lavoro e delle politiche sociali. Giorgio De Rita, segretario generale del Censis,  amministratore delegato per un triennio di Nomisma Società di Studi Economici spa, ha illustrato i dati raccolti. A lui abbiamo rivolto alcune domande.

Come tutte le comunità anche Bologna è influenzata, e un po’ plasmata, dal mondo del lavoro. Qual è oggi la situazione in questo ambito?

Bologna è per molti versi un’isola felice, una punta avanzata nel panorama italiano. Questo rapporto che presentiamo oggi è un secondo appuntamento rispetto a un percorso di ricerca dedicato al tema del lavoro che il Censis, ormai da un paio di anni, sta svolgendo sulla città di Bologna. In Italia i giovani e le donne trovano molte difficoltà nell’affrontare un nuovo lavoro. Qui invece, grazie alla presenza dell’industria, grazie all’amministrazione che tutto sommato funziona, si può guardare al sistema occupazionale con uno sguardo più positivo.

Qual è lo scopo della ricerca e dell’attività che state svolgendo?
Capire come cambia il senso del lavoro. Vogliamo comprendere come i giovani lo interpretano perché sappiamo che gli attribuiscono un senso diverso, ed in qualche modo vediamo che si stanno mescolando due dimensioni: quella fortemente individualista, molto personale, dove il lavoro diventa il modo per realizzare le aspirazioni personali ed economiche ma, al tempo stesso, notiamo con soddisfazione e con ottimismo, una crescente attenzione alla possibilità che il lavoro diventi un modo per restituire qualcosa alla comunità in cui viviamo.

Da tanti anni con il vostro lavoro tenete monitorata l’Italia. Guardando al percorso di Bologna, che cambiamenti ci sono stati negli ultimi decenni?

Bologna è una città ricca ma è una città inquieta, è una città che sa fare attrazione, sa fare inclusione sociale, ma che al tempo stesso si confronta con disuguaglianze crescenti. Tutto questo in qualche modo diventa un esempio di ciò che sta succedendo nel paese. Bologna è cambiata molto nella sua dimensione collettiva ed economica, è cresciuta nella sua vocazione urbana, è una città che ha ben capito cosa vuol fare di sè stessa. Bologna è stata in grado di concentrarsi sull’innovazione tecnologica, sulla formazione, c’è molta attenzione su temi ambientali e della digitalizzazione. Il progresso però non l’ha portata a stravolgere i propri tratti: la città ha mantenuto le caratteristiche di una città ricca e robusta; è stata in grado di non fare attrazione selettiva, cioè di non porsi il problema di far entrare solamente alcune funzioni economiche, alcune imprese, alcune tipologie di popolazione ma di essere accogliente verso tutti. Crediamo che questa sia una delle caratteristiche più importanti oggi della città di Bologna perché la distingue dalle altre grandi capitali europee e italiane.

Ci sono delle istituzioni come l’Università, il Comune, la Chiesa stessa, il mondo ospedaliero, che hanno plasmato e plasmano questa «città snodo». Cosa ne pensa?

 In parte sì, in parte no. Certamente la presenza delle istituzioni come la Chiesa, il sistema della sanità pubblica d’eccellenza, hanno dato un impulso alla trasformazione. Però, quello che noi notiamo è che la città cambia per sé stessa, cambia dal basso, nella sua composizione sociale riuscendo a raccogliere e a fare selezione. Tutto questo permette di lasciar vivere le energie positive presenti sul territorio. Quindi, il merito delle istituzioni è stato quello di aver lasciato crescere questi germogli, pur con tutte le fragilità di un paese che soffre enormi difficoltà sotto il profilo della crescita economica, dei redditi e delle famiglie. Un’altra realtà è l’aumento delle diseguaglianze che non dobbiamo mai dimenticare perché nessuno rimanga indietro.

L’occupazione è un filo rosso che unisce lavoro e comunità: è un rapporto in cui l’uno incide sull’altro?

I dati ci dicono che non è chiaro a tutti. Molti degli occupati sia a Bologna che in giro per l’Italia continuano a ritenere che il lavoro sia un mezzo di affermazione personale. Oggi, soprattutto nei giovani con un buon titolo di studio sta crescendo una forte attenzione per la comunità circostante, quindi il lavoro non è soltanto un mezzo di affermazione personale, ma un mezzo di restituzione alla società, alla comunità, alla collettività. Si vuole contribuire ed incidere nel territorio in cui si opera per aiutarlo a crescere. Si pensi a tutti i temi legati all’ambiente e alla sensibilità dei giovani su questi temi. Il lavoro non è soltanto un riflesso di interesse personale ma collettivo.

In conclusione, quale quadro esce del nostro territorio?
È sulla stessa linea del rapporto che abbiamo stilato lo scorso anno: Bologna è una città matura, è una città inquieta, è una città che cerca una dimensione di speranza che ancora, per certi versi, non ha trovato.

 

 

 

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