MADRID – Lo scorso 5 febbraio l’arcivescovo è intervenuto a Madrid alle «Giornate di aggiornamento pastorale per sacerdoti» promosse dall’Università ecclesiastica San Damaso – Facoltà di Teologia.
- Il suo intervento ha avuto come tema “Evangelizzare la grande città”. Nel dibattito a più voci sono intervenuti anche il Cardinale Carlos Osoro Sierra di Madrid e con il Cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston. Qui il servizio di 12Porte.
- A margine di quell’incontro ha rilasciato anche una lunga intervista a Jesús Bastante di Religión Digital sul presente e futuro della Chiesa della quale vi offriamo una traduzione a cura di don Andrea Caniato.
NON CONFONDERE CONVERSIONE PASTORALE E RELATIVISMO
«La Chiesa non si spiega, si vive. Si vive con la preghiera, la vicinanza, la prossimità, vivendo il Vangelo e non un Vangelo ridotto a morale, ma un incontro che sia vita, come deve essere il Vangelo, che parli al cuore». Alcuni giorni fa, il Cardinale Zuppi ha partecipato a Madrid a un congresso sulla evangelizzazione nelle grandi città, organizzato dall’Università San Damaso e ha concesso una intervista a Jesús Bastante di Religión Digital, nella quale riflette sul presente e sul futuro della Chiesa.
Nella sua conferenza, lei ha recuperato il concetto di “profeti di sventura” utilizzato da Giovanni XXIII nel Concilio. Nella Chiesa in Europa siamo forse troppo rassegnati alla tristezza?
Certo, ci sono molte difficoltà ma la fine della cristianità, è chiaro, ma non significa la fine del Vangelo né del cristianesimo. Ci sono molte difficoltà e problemi, ma credo che Giovanni XXIII aveva ragione. Non si possono guardare solo le difficoltà, ma bisogna vedere le opportunità. I problemi sono sfide, o meglio opportunità. Il deserto della grande città è il deserto di una vita di sentimenti, di mancanza di legami veri, di persone isolate e ci chiede di essere una chiesa che sappia trasmettere amore, impegnarsi con affetto. È una grande opportunità.
Non è che la gente abbia smesso di cercare, ma che non sappiamo formulare domande né offrire risposte.
Sì, per questo dobbiamo essere più vicini, parlare (i preti, i laici, le comunità…), parlare con tutti e ricominciare. Ascoltare e parlare, ascoltare le ferite, parlare con simpatia e con forza alla gente.
Le città sono grandi formicai, ma le persone non sono formiche delle quali sappiamo cosa vogliono, ma non sappiamo come sono. Cosa può fare la Chiesa di fronte a questa realtà?
Credo che possiamo fare molto per costruire comunità. La rivoluzione digitale, che è ormai una rivoluzione antropologica… l’uomo digitale ha abitudini, modi di vedere, di aggregarsi, di connettersi, restando però profondamente isolato, creare relazioni senza conoscersi, confondere il reale con il virtuale…. Tutto questo genera legami molto superficiali, molto rapidi, mentre invece la vita non è superficiale, non può essere così. Noi dobbiamo costruire legami che siano più pieni di vita, non in competizione con il digitale, ma che si traducano in affetto e amore. Questa è la sfida. Costruire comunità non gruppi WhatsApp, relazioni vere tra le persone.
È un po’ quello che sostiene Papa Francesco: tornare alla comunità, dove tutti condividano con tutti, e conoscere la vita dei vicini, condividere la vita con loro…
Bisogna tornare alle prime comunità. Questo è il modo di procedere di Papa Francesco che è evangelico. È evidente nella grande città, con il suo anonimato, con tanti mondi isolati tra di loro, uno accanto all’altro, con una identità come la globalizzazione in cui tutto sembra possibile ma io intanto mi trovo solo… c’è tanta solitudine. In Italia, una persona ogni tre vive sola. Per questo credo che il Vangelo ha molto da dire all’uomo che vive così.
La Chiesa-struttura, una Chiesa grande strutturata, piramidale, può tornare a queste piccole comunità o è un controsenso?
La Chiesa deve essere una struttura grande, certamente, se vogliamo, una istituzione. Ma la Chiesa nel suo cuore è un gregge, è sempre una piccola comunità. Deve essere una comunità: noi non siamo colleghi, siamo fratelli. L’immagine che ho è quella di alcune basiliche di Roma (la mia città di origine) dove si trova ancora la casa nella quale si riunivano i primi cristiani. Se vai a Santa Cecilia in Trastevere, sotto trovi la casa di Cecilia, dove si ritrovava la comunità e sopra una bellissima basilica, grande, che sembra quasi un ipermercato… ma sotto sotto resta sempre la casa di Cecilia. In definitiva, le chiese devono essere sempre domestiche.
È una delle sue sfide: come si spiega che questa chiesa-ipermercato è la stessa di quella di sotto?
Non si spiega, si vive. Si vive con la preghiera, con la vicinanza, con la prossimità, vivendo il vangelo e non un vangelo ridotto a morale. Che sia un incontro, che sia vita, come deve essere il Vangelo. Che sia un avvenimento, una parola che parli al cuore.
Il Papa ha molti nemici per recuperare questo stile di Chiesa?
Credo che ci sono tanti profeti di sventura, ci sono tanti che confondono la conversione pastorale e missionaria con il relativismo morale, con il relativismo della verità. Io credo che la conversione ci aiuta a vivere bene il deposito della nostra fede e a viverlo oggi, per non restarne fuori. Vogliamo che il vangelo continui a parlare agli uomini di oggi. Di fronte alla secolarizzazione e alle sue conseguenze, il Vangelo risponde al grido dell’uomo di oggi.
Queste opposizioni sono così forti da bloccare il cambiamento?
È normale che ci sia paura di uscire. È normale che sorga la tentazione di mettere un limite quando parliamo alla moltitudine, ma dobbiamo essere una comunità che accoglie. Il modo migliore di uscire è essere accoglienti. C’è chi vuole, prima di tutto, idee chiare e distinte. La misericordia è il contrario ma è chiarissima. Tu sei il mio prossimo. Questo è il limite che vince ogni limite.
Appartiene alla Comunità di Sant’Egidio. È un modo di intendere la Chiesa molto particolare. Come si vive l’essere Chiesa dentro una comunità come Sant’Egidio?
Sant’Egidio è una comunità nella quale le tre “P” che il Papa Francesco ha indicato si uniscono molto: Pane, Parola, Poveri. È una comunità. Ora, ciascuno di noi, per vivere la Chiesa deve vivere in una comunità. Perché se no la Chiesa diventa virtuale, parliamo di qualcosa di disincarnato. La comunità ci fa vivere un amore incarnato, non fuori dalla storia. Questa comunità fa parte di una comunità più grande, dunque, con questa cura di riunire tante esperienze in molte realtà. Questa è la sfida di vivere la Chiesa-Comunione, non una esperienza unica. C’è una grande ricchezza nella Chiesa, che può essere autentica solo se c’è una grande comunione tra le singole realtà. La conversione pastorale e missionaria che ci chiede Papa Francesco è che, per essere veramente in comunione, dobbiamo uscire fuori di noi stessi. E questo ci fa comprendere l’altra comunità.
Ultima domanda. Nel suo discorso alla Curia, Francesco ha fatto sua la frase di Martini secondo cui la Chiesa ha 200 anni di ritardo. Qual è la Chiesa del futuro che sogna il cardinale Zuppi?
Una Chiesa che sappia riunire ciò che era diviso, che vice in comunità, vicina ai poveri, che accoglie i poveri, che unisce la preghiera e l’impegno, la Parola con la vita. Non come direzioni separate, perché sono indispensabili l’una e l’altra. Un mio predecessore a Bologna, in molti altari fece scrivere alcune parole: “Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo il pane della terra?”. Queste sono due realtà, il cielo e la terra, l’uomo e Dio, la comunione e la cura dei poveri, la preghiera e la cura spirituale… e un unico modo di essere cristiani. Gesù ci ha lasciato un solo corpo, una sola vita. Essere cristiani non significa chiudersi, significa vivere nella nostra vita concreta il mistero della presenza di Dio.