Venerdì 24 novembre

Una riflessione sul fine vita

L'evento dal titolo «Fino alla fine» si è svolto a Castel Maggiore

Il contributo nato dall’incontro «Fino alla fine» svoltosi nella sala parrocchiale di Castel Maggiore

Venerdì 24 novembre si è svolta, nella sala parrocchiale Don Arrigo Zuppiroli a Castel Maggiore, una riflessione dal titolo “Fino alla fine. La vita nel limite, la cura”. I relatori,  l’on. Donata Lenzi e padre Carlo Casalone s.J., hanno dialogato tra loro e con il pubblico sulle principali tematiche connesse al fine vita, a partire dall’attuale quadro normativo. L’incontro è stato moderato dal dott. Enrico Delfini, medico di famiglia di Castel Maggiore.

Le conquiste in campo medico hanno portato ad un allungamento della vita umana, ma anche ad un allungamento del tempo di convivenza con la malattia. Anche il processo stesso del morire tende a dilatarsi, diventando più lungo e travagliato: al timore della morte si aggiunge oggi quello di una sofferenza gravosa e protratta. Occorre quindi interrogarsi su come modulare i trattamenti, in modo che essi siano proporzionati al bene integrale della persona. Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento intendono favorire una partecipazione libera e responsabile della persona malata alle decisioni cliniche che la riguardano, anche nelle fasi in cui non è più in grado di esprimersi.

Su questi aspetti di libertà di scelta e salvaguardia dell’autodeterminazione quando la vita giunge al suo limite, si é soffermata nella serata di riflessione sul fine vita l’on. Donata Lenzi, giurista, ex parlamentare e relatrice della legge 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e  disposizioni anticipate di trattamento (DAT)”. Come ha spiegato Lenzi, la legge parlamentare 219 del 2017 è una legge laica, che tratta di temi eticamente sensibili, ma che ha trovato intesa con una larga maggioranza (326 SÌ e 37 NO alla Camera, 180 SÌ e 71 NO in Parlamento). All’articolo 1 essa elenca i princìpi fondanti della legge: il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, cioè il diritto di ogni persona di poter fare scelte libere e consapevoli rispetto alla propria vita e alla propria salute. “Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” (art 1). Ogni trattamento deve essere quindi autorizzato dal malato, ed “è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, di cui il consenso informato è strumento: in esso si incontrano infatti “l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”. Ogni persona ha il diritto di essere informata in modo chiaro e completo in tutte le fasi della malattia, con una forma di comunicazione (che è ben più che informazione) adeguata e proporzionata alle fasi del trattamento; ha il diritto di non essere informata, se preferisce così; di indicare qualcuno di sua fiducia da informare al posto suo; di decidere se coinvolgere i familiari nelle decisioni da prendere; di cambiare idea in ogni momento per quanto riguarda il consenso fornito in precedenza; di sospendere o rifiutare le cure. Il medico deve rispettare la scelta del paziente e l’azienda ospedaliera ha il dovere di compierne la volontà. Il paziente non può essere mai abbandonato e, indipendentemente dall’accettazione o meno delle cure proposte, il medico deve adoperarsi per non fare soffrire il paziente ed evitargli trattamenti inutili o sproporzionati. La cura deve essere efficace e allo stesso tempo deve non essere troppo gravosa per il malato, che deve poter conservare per quanto e per il più a lungo possibile dignità, serenità, consapevolezza. Tutelare la dignità nel fine vita significa rispettare il malato nella fase finale della vita, escludendo sia di anticipare o procurare la morte (eutanasia) sia di dilazionarla con trattamenti inutili o sproporzionati.  L’articolo 2 della legge, sul diritto di non soffrire, stabilisce che ogni persona ha il diritto di ricevere la miglior terapia del dolore disponibile, di non soffrire inutilmente; di non subire alcuna forma di “ostinazione irragionevole” (espressione che parla di non-accettazione psicologica e che viene usata al posto dell’espressione “accanimento terapeutico”, poiché ciò che può essere terapeutico non è accanimento e viceversa), cioè di non subire trattamenti eccessivi, sproporzionati, sempre in rapporto al caso personale e alla percezione psicologica del malato; di ricevere la cosiddetta sedazione palliativa profonda, cioè un trattamento di sedazione, nelle fasi finali della vita, che permette di non provare dolore fisico o psichico in prossimità della morte, quando i sintomi dolorosi non sono controllabili.

Conosciute anche come testamento biologico o biotestamento, infine, le DAT sono un documento con il quale la persona può esprimere, ora per il futuro, il proprio consenso a molte scelte che riguardano la sua salute, in previsione della possibilità di non essere più in grado di decidere in modo autonomo in futuro.

L’intervento di padre Carlo Casalone, gesuita, medico e teologo, coordinatore della sezione scientifica e membro corrispondente della Pontificia Accademia della Vita, si è concentrato invece sul tema del limite imposto da un corpo malato, limite sempre più posposto dal progresso medico-scientifico, fin quasi a rimuovere, negare la morte; sul significato della “cura” quando il malato è inguaribile, e sulle cure palliative non solo per il sollievo dal dolore ma per il bene integrale della persona malata.

La vita umana, ha spiegato padre Casalone, si inscrive necessariamente in un periodo di tempo circoscritto, essa ha per natura un limite natale e un limite mortale. La vita è creazione, procreazione, ma è sempre qualcosa che riceviamo, la cui iniziativa non è mai stata nelle nostre mani e che ci è stata donata senza “consenso informato”. Ed è in questo scenario che noi esercitiamo la nostra libertà. Tuttavia oggi viviamo una medicina immersa nell’impresa scientifica e tecnologica: in medicina, come in tutte le scienze, le continue conquiste e acquisizioni tecnologiche hanno permesso di spostare, allontanare sempre più i limiti del corpo umano, dando l’illusione che il limite fosse non solo superabile, ma anche occultabile e magari sopprimibile. Non sorprende quindi che anche la morte nella nostra società venga rimossa e negata, relegata in contesti ospedalieri e intensivamente medicalizzata, gestita da professionisti specializzati.

Di fronte a scenari di malattie croniche e inguaribili, ancora oggi presenti e aumentate proprio per l’allungamento della vita media e il proliferare di patologie senili, la medicina si scontra tuttavia con il limite della inguaribilità, ed è in questo contesto che entrano in scena le cure palliative: esse assumono il limite e riprendono il vero e profondo scopo della medicina, che è la cura della persona in ogni sua dimensione, fisica, psicologica, emotiva, affettiva, spirituale. L’intento delle cure palliative è quello di alleviare il dolore e la sofferenza, spostando il centro di attenzione dalla guarigione della malattia al prendersi cura della persona e della sua famiglia. L’appropriatezza clinica di una cura va rapportata alle forze del paziente, ai suoi convincimenti e alle sue credenze, e il discernimento è questo spazio di valutazione del medico con il paziente.

La terapia del dolore mira ad una identificazione precoce del dolore, alla prevenzione della sofferenza e al trattamento del dolore. L’uso di farmaci analgesici, in particolare morfina e oppioidi, è stata in passato visto con sospetto per ragioni culturali e religiose.  Anche sul versante ecclesiale, tuttavia, vari documenti hanno chiarito che l’analgesia, intervenendo direttamente in ciò che il dolore ha di più aggressivo e sconvolgente, rende l’esperienza del dolore più umana e sopportabile, concedendo al malato dignità. La libera accettazione cristianamente motivata del dolore non deve far pensare che non si debba intervenire per lenirlo. Ciò che salva – ha detto padre Casalone – non è il dolore, ma l’amore. Il dovere professionale, nonché la stessa carità cristiana, esigono che si operi per l’alleviamento della sofferenza, e sollecitano la ricerca medica in questo campo.

Sul tema della sedazione profonda si era già autorevolmente espresso papa Pio XII in un discorso tenuto ai medici rianimatori nel 1957, affermando che “è moralmente permessa in fase terminale la soppressione della coscienza per evitare al malato dolori insopportabili”, anche qualora, nella fase di morte imminente, i farmaci fossero causa di un accorciamento della vita.

Gli interventi di entrambi i relatori hanno concordato dunque sulla centralità della persona malata e della comunicazione: una scelta terapeutica non può realizzarsi se non attraverso una comunicazione aperta e onesta tra medico e paziente; entrambi i relatori hanno convenuto come occorra comporre in modo equo l’impegno a curare le malattie e quello di prendersi cura del malato e che l’esigenza che le cure palliative mettono in luce è che la medicina dia nuovamente respiro alla sua basilare vocazione a “prendersi cura”.

Occorre confrontarsi con il limite umano, non solo sul piano conoscitivo e operativo, ma anche esistenziale, elaborare il limite come luogo non di sconfitta ma di compimento dell’esistenza, nella logica della cura.

Mary Cimetta

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