Nel pomeriggio di lunedì 18 ottobre 1976, esattamente venticinque anni fa, il cardinal Giacomo Lercaro concludeva la sua luminosa e operosa giornata terrena.
Agli occhi di quanti erano presenti in quell’ora il suo passaggio al mondo invisibile e vero ha ricordato la fine degli antichi patriarchi: un transito sereno, persuaso, pacificato; quasi l’estrema risposta alla permanente chiamata del Creatore che l’aveva incalzato tutta la vita, quasi l’atto supremo e conclusivo di adesione alla volontà di Dio, dopo i lunghi anni trascorsi nell’attenzione alla voce del Padre e nell’obbedienza al suo disegno.
La sera di venerdì 15 ottobre egli aveva ricevuto l’unzione degli infermi nel contesto di una toccante liturgia eucaristica, presieduta dal cardinal Antonio Poma e concelebrata dai sacerdoti che più gli erano abitualmente vicini. Aveva rinnovato la sua professione di fede e accolto per l’ultimo viaggio il buon viatico del Corpo del Signore. Tutto “con edificante fervore e intensa commozione”, a testimonianza del medesimo suo successore.
Così veniva degnamente coronata l’ammirevole vicenda di un grande uomo, di un discepolo intelligente ed entusiasta di Cristo, di un impareggiabile vescovo. E l’intera sua esistenza terrena era come rifinita e suggellata in vista dell’ingresso nella Gerusalemme celeste.
Una volta egli ebbe a dire: “Io mi trovo bene soprattutto quando sono all’altare”. Ed è una confessione illuminante.
Questa personalità poliedrica, che ha lasciato un po’ in tutti i campi i segni della sua genialità – non solo nella prassi ecclesiastica e nell’arte pastorale, ma anche negli ambiti della socialità e della cultura – aveva, nella realtà più profonda, identificato (per così dire) la sua ricchissima umanità con il suo sacerdozio.
Questa sua primaria caratteristica spiega e rischiara ogni altro aspetto dell’universo lercariano: dimenticarlo potrebbe condurre a interpretazioni parziali e riduttivi, se non addirittura a travisamenti persino ideologici. Noi vogliamo oggi rapidamente rievocare questa connotazione preliminare e sorgiva, facendoci aiutare dal diretto magistero del compianto arcivescovo, attinto specialmente dalle omelie per le ordinazioni presbiterali.
Il cardinal Lercaro ha colto e assimilato nella sua personale spiritualità l’indole onnicomprensiva della liturgia, opera sacerdotale per eccellenza; e l’ha poi saputa proporre efficacemente nel suo multiforme insegnamento.
Era forte in lui il convincimento che tutto in essa si può trovare di quanto è indispensabile per la crescita interiore del ministro di Dio e per la fecondità del suo apostolato. Nella liturgia – egli diceva – la lode di Dio è perfetta, perché il sommo “liturgo” è sempre Cristo; e di lui noi siamo solamente gli strumenti.
“La liturgia è preghiera, preghiera di Cristo in noi e di noi in Cristo La liturgia è il senso della famiglia di Dio, un senso di comunità, di solidarietà, di caritàE’ quella carità che arde nel cuore di Cristo e che lo Spirito Santo ha accolto da questo cuore e ha diffuso nei nostri cuori, alitando in noi. Nella liturgia abbiamo tutto: un mezzo di santificazione per il popolo nostro di impareggiabile valore. Penso che per tanti secoli la Chiesa di Dio non ebbe altra forma di istruzione, e non ebbe altro mezzo di formazione che questo della santa liturgia; che esauriva tutto un atteggiamento di maternità generante, nutriente, elevante ed educante della santa madre, la Chiesa” (Omelia del 25 luglio 1961).
Il cuore della liturgia – e dunque anche di tutta l’esistenza cristiana – è la messa. Da sempre egli aveva fatto della messa la sua grande passione di apostolo e di pastore. Si accostava a questa realtà salvifica – a questo “mistero”, secondo il tradizionale linguaggio ecclesiale – con animo affascinato ed esultante, sicché i paragoni non gli bastavano mai: “La messa è una realtà vasta, è un oceano, è un sole” (Omelia del 25 luglio 1963).
Perciò non si stancava di raccomandarne ai preti l’assidua contemplazione: “Meditate questo mistero, meditatelo nelle sue parti, meditatelo nei suoi riti, meditatelo come assemblea della famiglia di Dio, meditatelo come memoria reale di Cristo e del suo mistero di redenzione, di passione beata, di morte, di resurrezione, di ascensione. Meditatelo come acme della vita del mondo che raggiunge la sua finalità in questa offerta degna di Dio” (ib.).
E con singolare acutezza egli aveva compreso che l’eucaristia era la Chiesa in boccio, come l’intera vita ecclesiale che si dispiega nella storia degli uomini era l’eucaristia che va sempre più compiutamente sbocciando. “Che cosa non è nato dalla messa nel mondo, anche soltanto sul piano della vita terrena? Tanto che voi vedete oggi il mondo organizzare le sue forme di assistenza fino a volere assicurare la sicurezza sociale
Ma lo sapete voi che prima di diventare leggi, queste provvidenze furono carità? E donde è nata la carità? Dalla messa. Dove condividiamo i beni celesti, immensurabilmente più belli e più preziosi dei beni terreni; e come è possibile che condividiamo con chi ha bisogno il pane celeste, se non condividiamo il pane terreno che vale tanto di meno?” (Omelia del 21 giugno 1962).
Uno spirito aperto, un credente appagato, un uomo investito del ministero apostolico che vive immerso in questi pensieri e quotidianamente se ne lascia illuminare, non può non vivere in uno stato inalienabile di gratitudine e di gioia: gioia e gratitudine per la sua altissima vocazione cristiana, per il destino trascendente che gli è stato donato, per la sua felice appartenenza ecclesiale.
“Siamo riconoscenti” – gli dice. “Sì, anche di appartenere a questa Chiesa con un senso pieno di umiltà davanti alla grazia di Dio che della Chiesa ci ha fatti membri, ma anche con un senso di fierezza perché noi possediamo per grazia di Dio la verità che è il Verbo divino, parola eterna del Padre che ha portato nel mondo (e noi possediamo) la grazia sua che è l’amicizia di Dio, la figliolanza di Dio; e possediamo la speranza che egli ci ha dato: una speranza che va oltre la vita, che va oltre la morte, che va oltre il tempo, una speranza che è eterna e che non confonde” (Omelia del 25 luglio 1960).
Ci si rivela da questi testi quale sia la fonte e l’ispirazione del caldo inno d’amore alla Sposa del Signore Gesù, che è una delle pagine lercariane più eloquenti e più alte: “Amate la Chiesa come Cristo l’ha amata e ha dato per lei il suo sangue. Amate la Chiesaquando viene incontro ai vostri desideri, alle vostre aspirazioni; quando i suoi ordini, le sue disposizioni, incontrano il vostro gusto, i vostri pensieri, il vostro indirizzo.
Ma amatela, e amatela di più, anche quando le disposizioni sue, gli atteggiamenti suoi, gli ordini suoi, potessero urtare la vostra sensibilità o sembrare incomprensioneAmate la Chiesa quando la vedete trionfare, ma amatela tanto più quando la sentite incompresa, perseguitata, circondata da diffidenzaAmatela difendendola, perché la Chiesa è santa anche se non siamo santi noi che la rappresentiamo: la Chiesa è santa perché è santo Cristo che parla in noi, che agisce in noi, che perdona per mezzo nostro, e che santifica e benedice con le nostre mani, che non cessa mai di guidare la sua Chiesa”. “Come è bella la Chiesa, o miei figlioli!” (Omelia del 25 luglio 1960).
Benché pronunciata più di quarant’anni fa, questa è, nell’omiletica dell’arcivescovo Giacomo, una delle esortazioni più opportune, più benefiche, di attualità più vibrante per la cristianità un po’ confusa dei nostri tempi.