celebrazione della passione del signore

Bologna, Cattedrale

Gesù sulla croce raccoglie odio e scherno da tutti. Ad ascoltare la varia voce degli evangelisti, si direbbe che tutta la società umana ha voluto entrare per rappresentanza nel triste coro di insulti rivolto al Figlio di Dio; quel Figlio di Dio rifulgente in cielo tra gli angeli, che in terra ormai appariva (come aveva predetto il profeta) “disprezzato e reietto dagli uomini” (cfr. Is 53,3).

Lo insultavano i comuni cittadini, che passavano scotendo il capo e dicendo: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, discendi dalla croce!” (cfr. Mc 15,29-30). E lo schernivano anche i capi del popolo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso” (cfr. Lc 23,35).

Lo irridevano i detentori del potere e della forza, i soldati di Roma, mentre gli davano da bere aceto: “Salva te stesso, se tu sei il Re dei Giudei” (cfr. Lc 23,37). Ma non si facevano meno beffe di lui coloro che esercitavano l’autorità morale e culturale in Israele, cioè i sommi sacerdoti e gli scribi: “Scenda dalla croce, lui che si è fatto Messia, e anche noi crederemo!” (cfr. Mc 15,32).

Come si vede, sulle labbra di tutti c’è una sola sfida offensiva e una sola provocazione: “Prova a staccarti dal tuo infamante patibolo, se ne sei capace”

Avevano tutti, come si vede, una medesima persuasione: che fossero i chiodi dei carnefici a fissare irreversibilmente sul legno il corpo del Nazareno. Ed era invece soltanto l’amore: l’amore verso il Padre, cui egli voleva obbedire fino alla morte; e l’amore verso i suoi fratelli in umanità, che egli era ben risoluto a salvare con la sua immolazione.

I chiodi da soli non sarebbero bastati a costringerlo; e ben lo sapeva, lui che nel Getsemani, al momento dell’arresto, aveva esplicitamente dichiarato: “Forse che io non posso pregare il Padre mio, che per la mia liberazione mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?” (cfr. Mt 26,53).

A tenerlo confitto era dunque l’amore, vincolo ben più forte e più tenace dei ferri orrendamente ribattuti sulle sue membra innocenti.

In tal modo, l’immagine della croce è stata per sempre intrisa, osiamo dire, di amore: l’amore del Signore dell’universo per il Padre suo e per noi.

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Appunto per questo – perché evoca l’immensa benevolenza di Dio nei nostri confronti e la sua incontrastabile energia rinnovatrice – la croce è diventata la ragione della nostra speranza, il segno della nostra identità, l’emblema della nostra gloria.

E’ il vessillo del popolo dei battezzati: un vessillo che nessuna prepotenza altrui e nessuna nostra preoccupazione di dialogo interreligioso – preoccupazione talvolta più generosa che illuminata – ci indurrà mai ad ammainare o a nascondere.

Ciascuno di noi, che siamo qui radunati in questo Venerdì Santo a rivivere la passione del Signore, ripeta allora con san Paolo dal profondo del cuore: “Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

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E’ stato lo stesso invincibile amore, che divampava nel cuore del Salvatore, a ispirargli nello spasimo dell’agonìa l’implorazione sublime: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Secondo la testimonianza dell’evangelista Giovanni, che stasera ci è stata ancora una volta riproposta, vicino c’era la madre di Gesù intenta a raccogliere avidamente queste parole; parole che si sono radicate nel cuore della Vergine Addolorata, e sono diventate anche sue.

Maria si è in tal modo assimilata ancora di più a quel suo Figlio carissimo e misterioso, che in quel momento le si rivelava come la personificazione della inesauribile compassione per gli uomini del Signore del cielo e della terra. Si è assimilata a lui e si è fatta così perfettamente consonante con lui, che noi la possiamo sempre fiduciosamente invocare (per quanto sia grande la nostra miseria) come la “madre della misericordia” e l’instancabile “avvocata dei peccatori”.

Verso tutti i figli di Adamo, colpevoli sempre e quasi sempre infelici, un solo appassionato affetto sgorga dunque sia dall’animo del Redentore sia dal cuore materno di colei che è la prima e più perfetta redenta; un affetto di predilezione rivolto a chi è debole, a chi è tentato, a chi cade; un affetto che ci raggiunge tutti, e ridonandoci consolazione e coraggio, è in grado di ricollocarci tutti sulla strada del ritorno al Padre.

Una medesima obbedienza al disegno di salvezza del Creatore – pensato e deciso per noi prima di tutti i secoli – conquista, avvolge, avvalora tanto l’Agnello di Dio, che si immola per cancellare nel perdono ogni prevaricazione terrena, quanto la Madre dell’Agnello, che offre il suo Unigenito e tutta se stessa perché sia oltrepassato e vinto ogni male del mondo.

Non solo al discepolo prediletto, ma anche a tutti noi che in quell’ora eravamo significati e impersonati da lui, il Signore crocifisso dice: “Ecco tua madre” (cfr. Gv 19,27). Giovanni in quel momento è il simbolo dell’umanità riscattata e rinnovata; è il simbolo di tutti noi, che Maria genera alla vita di fede e alla grazia.

Come si vede, Dio (che pur non ha bisogno di nessuno) ha voluto attivare un comprincipio femminile nella grande impresa della salvezza umana. Si è così consumata integralmente la divina rivalsa sull’opera nefasta dell’antico serpente, che nell’Eden aveva cominciato insidiando la donna.

Contemplando adesso con occhi illuminati dalla verità la perfetta rivincita del suo Creatore e il riscatto della sua discendenza, “Eva, la madre del pianto, asciuga le sue lacrime” (Liturgia ambrosiana).

29/03/2002
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