celebrazione di san zama

Bologna, cripta dell'ospedale militare

Con questa celebrazione noi compiamo oggi un pellegrinaggio ideale ai primordi della nostra Chiesa. Questo luogo è stato caro ai primi nostri vescovi, a cominciare, sembra, proprio da San Zama, il primo della dinastia episcopale, dal quale si inizia la storia cristiana di questa città e di questa diocesi.
Noi ci vogliamo congiungere spritualmente questa mattina a quei lontani nostri fratelli in Cristo, consapevoli come siamo di professare le stesse certezze immutabili, che sono ancora la luce della nostra esistenza così come sono state la luce della loro.

Dal tempo di san Zama ad oggi tutto fuori di qui – nelle condizioni sociali, nei sistemi politici, nelle prospettive culturali – si è radicalmente e ripetutamente mutato. Solo la verità della fede è rimasta intatta e sempre identica a sÈ, sempre giovane e viva, come perennemente e vivo è Gesù risorto, Signore dell’universo e dei cuori, unico Salvatore del mondo. Con grande commozione noi ripercorriamo con questo rito la lunga storia del cristianesimo bolognese e la fedeltà al Vangelo della nostra gente nei secoli.
Sono perciò sinceramente riconoscente alla Direzione dell’Ospedale militare – che oggi è il custode di memorie tanto preziose – per la gioia e l’onore che mi è dato di presiedere questa divina liturgia.

Da questa assemblea desideriamo innalzare la nostra implorazione per la prosperità e la vitalità della Chiesa di Bologna, per la concordia e il benessere del popolo petroniano, per l’intera nazione italiana e per quanti la servono lealmente e generosamente, in divisa e senza divisa.
Questo luogo è sacro, come sappiamo, al ricordo dei martiri Nabore e Felice. La specifica dedicazione al nome di questi martiri non può certo risalire a san Zama, per evidenti incompatibilità cronologiche. Tutto fa pensare che sia piuttosto dovuta all’episcopato di san Felice, che si è protratto per più di trent’anni, fino all’avvento di san Petronio.

Proveniva da Milano, dove era stato diacono di sant’Ambrogio, il quale in una lettera lo ricorda con l’appellativo affettuoso di “figlio carissimo”.
E a testimonianza di Paolino, segretario e biografo del grande vescovo, lo aveva assistito durante l’ultima malattia.
È naturale che Felice nei molti anni del suo servizio pastorale diffondesse da noi la devozione a quei martiri, che egli aveva visto esaltare con tanta passione dal suo indimenticabile padre e maestro. Così si spiega che fiorisca da noi il culto per san Vittore; che l’antica pieve di Budrio sia posta sotto la protezione dei santi Gervasio e Protasio e che questa sede della prima vita religiosa bolognese si fregi dei nomi di Nabore e Felice.

Il richiamo all’esempio dei martiri era un cardine della strategia apostolica di Ambrogio, imitato subito in questo dai suoi suffraganei e dai suoi discepoli (come Felice, appunto). In un’epoca in cui il cristianesimo era passato dalle persecuzioni ai favori imperiali e si era perciò infiacchito, era provvidenziale e salutare che si richiamassero le figure degli antichi testimoni di Gesù, che non avevano esitato a versare per lui il loro sangue.
Nella loro vicenda era ripresentato nel modo più forte e persuasivo l’insegnamento di colui che aveva ammonito: “Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua”.
È un richiamo che è necessario e prezioso anche per il nostro tempo e per il nostro cristianesimo illanguidito.

Di Nabore e Felice (compagni di martirio di san Vittore, che però ha sempre avuto culto a parte). Sappiamo solo ciò che ci dice sant’Ambrogio nell’inno da lui composto e musicato per la loro festa. Ascoltiamolo e meditiamolo.
Vittore, Nabore, Felice, santi martiri di Milano, pellegrini tra noi, di stirpe maura e forestieri della nostra terra.
Vennero qui dalle sabbie riarse, sotto la vampa del sole anelanti, regione posta ai confini del mondo, estranea al nostro nome.
Li ospitò la Padania dietro un compenso di sangue; di una feconda Chiesa la fede li ricolmò di Spirito Santo.

La nostra Chiesa del sangue offerto di questi martiri si corona; strappati all’empio esercito, di Cristo militi li consacra.
La disciplina giovò alla fede: l’uso rischioso dell’armi belliche li ammaestrò nel penoso dovere di dar la vita a Cristo, vero Re.
Non dardi chiedono, non armi ferree, i soldati di Cristo: incede già ben munito chi vera fede possiede.
Scudo la fede, la morte vittoria per lui. Ma il tiranno ce l’invidiò che alla città di Lodi inviò i nostri martiri.
Rapiti poi, su quadrighe tornarono a noi le sacre vittime, condotti come su un carro trionfale al cospettto dei principi.

12/07/1997
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