Domenica XXXIII per annum

            Carissimi fratelli e sorelle, Gesù mediante una parabola, oggi ci dona un grande insegnamento di vita. Ascoltiamolo docilmente.

1.        Il racconto, partendo dal presupposto che il padrone di cui si parla si assenti per un lungo periodo, insiste su due momenti: la consegna in amministrazione del suo patrimonio a tre persone di sua fiducia [oggi di direbbe una forma di trust]; il resoconto finale al rientro del padrone. Dunque l'azione si svolge in tre tempi: consegna fiduciaria del patrimonio-assenza prolungata del proprietario – resoconto finale.

Se siamo stati attenti alla proclamazione della pagina evangelica, in realtà questa è soprattutto sul resoconto finale: letterariamente occupa anche il maggior spazio.

            Che cosa Gesù intende dirci con questo racconto? Non è difficile comprenderlo. La nostra vita di ogni giorno deve essere impegnata nella fedeltà alla parola del Signore. Deve essere come un albero che porta frutto di opere buone.

            Da che cosa nasce questa esigenza? Dalla certezza che alla fine della nostra vita noi saremo giudicati dal Signore su come avremo vissuto. Il proprietario della parabola, che ritorna dopo tanto tempo ed istituisce la resa e sentenzia il premio o il castigo, è Cristo risorto che incontreremo alla fine della nostra vita. I due che possono entrare nella gioia del loro padrone e l'altro che viene cacciato via, rappresentano ciascuno di noi. Ciascuno sarà sottoposto ad un giudizio o di approvazione o di condanna per come avrà speso la sua vita.

            Vedete quanta libertà interiore ci dona questa parola di Gesù! L'apostolo Paolo, in un momento difficile del suo ministero apostolico, criticato dai fedeli di Corinto e messo a confronto con altri missionari, scrive: «a me, … poco importa di venir giudicato da voi o da un tribunale umano…Il mio giudice è il Signore» [1 Cor 4, 3-4]. La consapevolezza, la certezza che è il Signore che ci giudica, ci libera dal tenere troppo in conto i giudizi degli altri su di noi, ci dona una grande libertà interiore. Chi si sottomette solo al giudizio del Signore, è libero da ogni altra sottomissione.

2.        Ma il commento più bello alla pagina evangelica è la seconda lettura appena proclamata, un brano della lettera di S. Paolo ai cristiani di Tessalonica.

            L'Apostolo parla dell'ultimo atto della narrazione che Gesù ci ha fatto nel Vangelo: l'arrivo del Signore per giudicarci. E S. Paolo ha una preoccupazione principale: suggerire ai suoi fedeli e a noi oggi come superare i pericoli di quel momento.

            In primo luogo egli sottolinea che il Signore non dà preavvisi; la sua venuta non è preannunciata. E' come la venuta dei ladri in casa nostra. Non ci preavvertono. E' come il dolore del parto ormai imminente: quando scoppia è già nella fase estrema. La conclusione è semplice: stando così le cose, «restiamo svegli». Siamo sempre pronti a ricevere il Signore.

            C'è una ragione poi per la quale dobbiamo essere pronti sempre a ricevere il Signore, senza paura. E' la condizione di vita in cui siamo stati collocati dal battesimo. L'apostolo la descrive con un'immagine molto potente: «voi, fratelli, non siete nelle tenebre, … voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno».

            Le tenebre sono il simbolo dello stato di accecamento spirituale e morale dell'uomo; di chi vive lontano da Dio e nel peccato, nel male. Ma noi, mediante il battesimo, siamo stati «liberati dal potere delle tenebre» e «trasferiti nel regno» del Signore risorto.

            Dunque, in sintesi. Poiché siamo stati liberati dal male, non ritorniamo sotto la sua schiavitù. Compiamo opere di bene e di giustizia, e quando il Signore verrà a giudicarci ci dirà: «prendi parte alla gioia del tuo padrone». Così sia.

 

16/11/2014
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