festa di san Giuseppe artigiano

Bologna, Cattedrale

Questo vostro convenire attorno all’altare del Signore facendo memoria di san Giuseppe assume, nel giorno dedicato universalmente a onorare il lavoro umano, un significato e una valenza che non devono essere disattese.
Giovanni Paolo II ha scritto felicemente che, “grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, san Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della redenzione” (Redemptoris custos 22).
Ponendo a responsabile della prima parte di vita terrena del Salvatore, Signore della storia e dell’universo, un uomo dalle mani callose che si guadagnava ogni giorno da vivere con la sua fatica, Dio ha preso uno del popolo, uno della gente semplice e comune, uno senza potere e senza fama, e lo ha associato nel modo più intimo e decisivo alla vicenda sublime dell’incarnazione del suo Unigenito.
In tal modo, ha superato e vanificato le stratificazioni classiste più inveterate, e ha messo in moto un ribaltamento della convenzioni e dei pregiudizi, che da allora pur tra molte difficoltà e molte lentezze è proseguito lungo i secoli, e non si è fermato più: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,51).
Così, quanti nella corsa dell’esistenza partono dagli ultimi posti – e nel dramma della storia sembrano non contare niente – sono stati nobilitati e promossi, come nessuna dichiarazione dei diritti civili e nessuna carta costituzionale è mai riuscita a fare in questa misura e con questa efficacia.
In questo disegno di Dio – e perciò nell’avvenimento cristiano – si trovano unite e cospiranti una volontà di pace e una volontà di mutamento: una pace e una mitezza, che non si risolve mai in una acquiescenza verso nessuna prepotenza che attenti alla vita, alla dignità, all’equilibrata libertà dei figli di Dio; un desiderio di mutamento e una spinta alla miglior giustizia, che però non inducono mai a violenze, a danneggiamenti, a grida di intolleranza o di morte, e non chiedono mai tributi di sangue.
Le altre rivoluzioni, pur nate intenzionalmente per l’affermazione e l’esaltazione dell’uomo, troppo spesso sono arrivate a uccidere e a soffocare la concreta esistenza delle persone in nome di ideologie astratte e disumane (come tutti sappiamo, anche se non tutti se lo ricordano con uguale libertà di spirito).
Si capisce meglio allora la singolarità inconfondibile che muove oggi i “lavoratori cristiani”. Voi, in un giorno risonante di infinite parole, siete venuti a onorare un uomo che ha avvolto nel silenzio la sua concreta operosità – l’operosità di carpentiere che si guadagnava da vivere con il sudore della fronte – (un silenzio che dopo duemila anni è ancora eloquente); a onorare un uomo che ha connotato il suo gravoso impegno quotidiano con un’obbedienza ai voleri del Creatore che è ancora esemplare; a onorare un uomo che ha impreziosito il suo comune lavoro di una fede non comune; quella fede, che sempre è per l’umanità principio di riscatto e di rinnovamento più di tutte le dottrine effimere e gli effimeri proclami

* * *

San Giuseppe è presentato dalla parola di Dio con la qualifica di “giusto”. Evocare la sua figura nella giornata del 1 maggio significa dunque riproporre l’urgenza e l’indole propria della giustizia cristiana.
Prima e più che esigere la giustizia negli altri, lo sposo di Maria e capo della famiglia di Nazaret si preoccupava di essere giusto lui. Così è il cristiano: primariamente è uno che, anche quando rivendica il suo diritto, non dimentica mai il suo dovere. Il suo assillo più grande è quello di cercare, giorno dopo giorno, nei suoi pensieri, nelle sue esternazioni, nei suoi atti, la conformità all’ideale di perfezione che il Vangelo gli ha rivelato. Vale a dire: il primo ambito in cui il lavoratore cristiano vuol mettere ordine è il suo mondo interiore e il suo personale comportamento.
Quanto più però questa tensione verso la giustizia si fa viva e forte in lui, tanto più egli si adopererà, per quello che può, a rendere più rispondente a equità il mondo in cui vive; a lavorare cioè per una società davvero giusta.
Una società giusta è quella che tiene conto dei più deboli e dei più sfortunati; e seriamente li aiuta. Ma al tempo stesso è una società che non si comporta allo stesso modo con chi fa il bene e con chi fa il male, che non compensa in pari misura chi è attivo e chi deliberatamente rifugge da ogni laboriosa occupazione. Perché la giustizia vera e sostanziale non sta nel trattare tutti ugualmente, ma nel trattare ciascuno come ciascuno si merita.
Una società giusta e illuminata è quella che nelle sue leggi e nelle sue istituzioni si dimostra convinta che il lavoro umano è una ricchezza più grande del capitale; ed è anche persuasa che l’uomo (con la sua dignità e le sue necessità) è un valore più alto di ciò che fa e di ciò che produce.
Una società giusta e lungimirante è quella che difende la realtà basilare della famiglia; si capisce, la famiglia che meriti questo nome: cioè la famiglia fondata sul matrimonio come dichiara con autentica laicità la Costituzione italiana (che è consonante in questo sia con la verità insegnataci dal Vangelo sia con la ragione che non ha rinunciato a ragionare). Una società giusta e saggia è quella che conseguentemente assicura alla famiglia laicamente degna di questa qualifica spazi adeguati di sussistenza, di sviluppo, di possibile fecondità, con interventi non ambigui e con provvidenze non irrisorie.

* * *

Che cosa ci dice questa partecipazione al rito eucaristico proprio in questo giorno? Ci dice e ci ricorda che noi possediamo una visione delle cose assolutamente originale e una identità inconfondibile, in grado di dare una dimensione nuova al lavoro, all’esistenza associata, a ogni problematica del nostro tempo.
L’odierna celebrazione dichiara a tutti che noi rifiutiamo le separazioni artificiose tra la nostra condizione di credenti e il nostro impegno umano.
Noi oggi portiamo all’altare col pane e col vino dell’offertorio le questioni, le ansie, le difficoltà del mondo del lavoro. Vogliamo con questo pubblicamente attestare che noi non pensiamo alla nostra professione cristiana come a un fenomeno che possa star racchiuso nel segreto dei nostri cuori e nella sacralità delle nostre liturgie; e non riteniamo affatto che le nostre certezze – pur trascendenti nei loro contenuti diretti – siano irrilevanti nella vita e nelle concrete problematiche di ogni giorno.
Va anzi detto che la consapevolezza della nostra identità, la nostra coraggiosa franchezza, la nostra coerenza ci permetteranno di offrire a tutti l’apporto specifico dei beni spirituali che ci vengono dalla fede.
Per esempio, in un mondo dove molte illusioni sono cadute, dobbiamo saper ridare ai nostri contemporanei l’energia della speranza, rendendo così possibile in loro la rinascita di qualche ideale che valga a superare l’aspirazione solo al benessere effimero, l’imperversare di un edonismo insaziabile, il dogma ossessivo di un libertarismo senza confini, senza traguardi plausibili e senza saggezza.
Dobbiamo altresì ridare ai lavoratori il gusto di guardare avanti senza pusillanimità e senza trasgressive intemperanze, con la volontà di realizzare almeno per i propri figli uno stato di vita che non solo sia più “giusto” e più solidale, ma anche abbia più sapore e più senso.

* * *

Il Signore Dio nostro – in virtù di questo sacrificio redentore che con tutta la Chiesa oggi gli eleviamo a favore di tutti lavoratori credenti e non credenti – ci doni sempre la luce della sua verità e il vigore inesauribile della sua grazia.

01/05/2002
condividi su