Giornata Mondiale del Rifugiato, preghiera “Morire di speranza”

Dal giornale di ieri: “Ci sono anche una donna incinta e una giovane mamma con la sua neonata tra le oltre settanta vittime del naufragio avvenuto la settimana scorsa al largo della Libia, i cui superstiti sono stati recuperati da una nave della marina militare statunitense. La tragica notizia giunge nel giorno in cui si celebra la giornata internazionale del rifugiato e mentre l’Europa cerca di elaborare un progetto comune per affrontare l’emergenza”.
Fa piangere una notizia così, una delle tante. Non ci possiamo mai abituare a questo. Quell’una donna incinta e una giovane mamma con la sua neonata, quei settanta inghiottiti dal mare come quei poveri morti buttati in mare come tomba perché i porti erano chiusi, questa sera vorremmo avessero un nome. Ne hanno uno per tutti: Lazzaro, sono tutti poveri Lazzaro.
Oggi preghiamo. Uniti, perché di fronte al dolore non ci si divide, si mette da parte ogni contrapposizione, il gusto di sentirsi contro, perché siamo tutti dalla parte della vittima, di chi è morto. Pregare può sembrare poco quando pensiamo a quello che sta accadendo, alle tante agitazioni, alla ricerca di una soluzione rapida ad un problema complesso, alla tentazione di rimandare e non fare nulla, alla improvvisazione o al rozzo protagonismo di pensare che tutto inizia oggi e con me stesso, ai giudizi temerari che oscurano sentimenti di umana pietà e che smarriscono anche il comune buon senso. Oggi preghiamo perché la preghiera ci insegna a vivere, ad essere realisti, a scegliere cosa fare, a disinquinare l’aria intossicata da aggressività e rabbia, da vittimismo e banale egoismo.
Come credenti ci uniamo all’invocazione di tanti fratelli più piccoli di Gesù che sono morti di speranza. Il loro grido, come quello di tutti i poveri uomini la cui sofferenza diventa invocazione, ci chiede di unirci alla loro preghiera (EG187). Farlo è la prima opera dei cristiani, non l’ultima! È la scelta dei figli di fermarsi e chiedere amore, di impararlo da Dio per poi “farlo” con la nostra vita. Pregare significa non accettare la regola del “a me che importa” o quella della rassegnazione. Chi prega non è fuori dal mondo, non cerca benessere spirituale lontano dalla storia piegando anche Dio all’io. Chi prega ascolta la Parola e condivide i suoi sentimenti con quelli di Colui che è l’autore della vita e ci insegna a vivere in maniera davvero umana.
Ascolteremo tanti nomi e accenderemo luci per ognuno. Quando non si ama o si ama poco l’altro resta un’ombra, uno, uno senza nome, una non persona perché senza volto, identificato con un problema, senza storia, giudicato non per quello che è lui ma come fosse una categoria astratta. Quando si ama invece cerchiamo conservare il volto irripetibile di quella persona, i suoi tratti, le sue parole. Stasera la Chiesa vuole essere quella che è: una madre che non vuole e può dimenticare nessuno dei suoi figli, tutti, prima i più deboli, come deve essere, dall’inizio della vita fino alla sua fine. Non fa politica. Ama i suoi figli.
La speranza di chi è morto di speranza era più forte della morte che accompagnava il loro coraggioso viaggio. Essi sfidano la morte non per gioco o per inettitudine come chi sciupa la vita vendendola alle migliori dipendenze o tenendosela stretta e finendo per perderla conservandola. I migranti sfidano la morte perché hanno un disperato bisogno di futuro. Scappano da morte sicura, dalla guerra, dalla violenza, dalla fame, dalle malattie, dal non attendersi più nulla. Lo fanno per altruismo, perché amano le persone cui sono legati, come i nostri nonni che partivano per dare una speranza alla loro famiglia. Sfidano la morte affrontando il deserto o salendo in quei barconi coscienti del rischio perché vogliono arrivare e la disperazione è più forte della paura, il desiderio più dei dubbi. Quanta angoscia, però, in mezzo al mare, immenso, terribile, spaventoso come può essere una dimensione senza punti di riferimento, sconfinata! E quante vessazioni nei mesi interminabili passati nei campi di raccolta, dove non c’è nessuno intorno che ti guarda con amore! Quante lacrime e umiliazioni quando il tuo corpo non vale niente e sei usata da uomini che come descrive il salmo si rivelano leoni che digrignano i denti e ti usano perché preda, donna debole e indifesa. Davvero la speranza è l’ultima a morire. Ce lo ricordano quelli che Papa Francesco ha definito lottatori di speranza, coloro che, visti in un’altra prospettiva, sono dei sopravvissuti, mentre quelli che ricordiamo sono i sommersi. Portiamo anche noi nei nostri i loro occhi.
Le luci che accenderemo ricordando i nomi sono anche una scelta: non arrendersi al male. Il Vangelo ci parla di un uomo, di un incontro imprevisto con una persona, quello lì, che ora sappiamo essere il fratello più piccolo di Gesù e quindi nostro. Sì è nostro fratello, non un estraneo, un nemico, un rischio. È un dono, come sempre è un fratello. Paolo VI a commento di notizie agghiaccianti della fame nel mondo disse che “d’ora in poi non possiamo dire che non lo sappiamo”. Anche noi lo sappiamo. Il giudizio del Vangelo è per tutti, tanto che la divisione non è tra credenti e non, ma tra giusti e stolti. Il giudizio inizia già oggi: avevo fame e non mi hai dato da mangiare. E’ metterci di fronte alle conseguenze delle nostre scelte. Ma è anche una gioia per tutti e due, per chi dà e per chi riceve, per un incontro avvenuto tra chi aveva fame e chi ha dato da mangiare! Il futuro ultimo, ma anche quello prossimo, dipende dalle nostre scelte oggi.
La lotta per la speranza chiede di essere noi il porto. Scriveva Giovanni Crisostomo: “L’uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malvagi, buoni o siano come siano, quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura! L’unico merito del povero è il suo bisogno: e se qualcuno ci viene incontro con questo, non esigiamo nulla di più. Infatti non facciamo l’elemosina al comportamento, ma all’uomo; né proviamo compassione per la sua virtù, ma per la sua sventura, affinché noi possiamo ottenere dal Signore grande misericordia e noi, che non la meritiamo, possiamo godere della sua filantropia. Se ci mettiamo ad investigare i meriti, Dio farà lo stesso anche con noi!”. Farlo agli altri ci aiuta a trovare anche noi misericordia, cioè pane, acqua, vestiti, visite, guarigione insomma vita. Diceva Papa Benedetto XVI “solo a partire da un “tu”, l'”io” può trovare sé stesso”. Ed è il tu più caro, quello di un fratello più piccolo, che è anche quello che si presume ti aiuterà nel futuro!
La memoria di chi è morto ci aiuti a riconoscere e difendere i vivi, a piangere davanti a tanta sofferenza, a scegliere con intelligenza, determinazione, efficacia, quella possibile ed umanissima via per “cui eri forestiero e ti ho accolto, eri nudo e ti ho vestito”. E ti ho reso bello perché ti ho amato. Così il mondo diventa più umano e trova speranza, senza la quale non si vive.

21/06/2018
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