giovedì santo, messa in cena domini

Bologna, Cattedrale

Con il rito assorto e commosso di questa sera noi diamo inizio alla celebrazione del “Triduo pasquale”. Rievocheremo cioè e rivivremo – accogliendone tutta la luce e la grazia – i tre giorni centrali e più santi dell’intera storia umana: i giorni in cui siamo stati singolarmente amati, i giorni che ci hanno redento, i giorni che hanno riacceso per gli uomini la speranza di un destino imperituro di fulgore e di gioia.

Il protagonista dell’azione salvifica di questi giorni è il Signore Gesù, colui che “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (cf Gv 13,1): vale a dire, fino a donarsi a noi, attraverso il sacramento del “Corpo dato” e del “Sangue versato”, in una arcana ma reale e intima comunione; colui che sulla croce è divenuto l’Agnello della Pasqua liberatrice e si è identificato con il “Servo di Dio” “trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”, di cui avevano parlato le profezie di Isaia (cf Is 53,5); colui che è risorto il terzo giorno per non morire più (cf Rm 6,9) e per essere la ragione, la fonte, il modello della nostra personale risurrezione.

Se Gesù è il protagonista di ciò che è avvenuto nella vicenda salvifica, nel mondo interiore dei nostri sentimenti e dei nostri stati d’animo, protagonista di questi giorni deve essere la fede: con occhi di fede domani volgeremo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (cf Gv 19,37) e sapremo leggere nell’atto più atroce che gli uomini potessero perpetrare il capolavoro della benevolenza del Padre per noi; con occhi di fede contempleremo rallegrandoci il sepolcro vuoto di Cristo e la sua nuova e gloriosa vitalità.

Con occhi di fede in questa celebrazione “in cena Domini” scruteremo ciò che succede al pane e al vino nell’ultima cena; nella cena consumata dal Signore coi suoi alla “vigilia della sua passione, sofferta per la salvezza nostra e del mondo intero”.

“Questo è il mio corpo”, “questo è il calice del mio sangue”: le parole sorprendenti di Gesù, pronunciate per la prima volta nel cenacolo, non si sono più spente; risonando sugli altari in ogni tempo e in ogni luogo della terra, continuano a operare il loro prodigio. E in ogni tempo e in ogni luogo suscitano un’emozione, una meraviglia, uno stupore adorante che non può trattenersi dall’erompere nel grido: “Mistero della fede!”.

In questo grido si riassume e si manifesta l’intera storia cristiana; in questo grido c’è lo sbigottimento degli apostoli davanti alla prima Eucaristia; c’è il fervore delle comunità delle origini, radunate per la “frazione del pane”; c’è il rapimento estatico di quanti nei secoli sono stati affascinati dall’arcana presenza in mezzo a noi di Cristo e del suo sacrificio.

“Mistero della fede!”.

Ripetendo quel grido noi ci associamo alla fede dei martiri, che dall’Eucaristia hanno attinto la forza della loro coraggiosa testimonianza; ci associamo alla fede degli antichi padri e dei santi e illuminati maestri, che nelle varie epoche hanno profuso intelligenza, genialità, passione per proporre efficacemente ai fedeli, per difendere da tutte le riduzioni e da tutti gli equivoci, per far brillare davanti a tutti la bellezza della divina verità di questo mistero; ci associamo alla fede della schiera di vergini, che in essa hanno trovato la limpida sorgente delle loro ineffabili gioie.

“Mistero della fede!”: questo nostro grido è insomma il grido della santa Chiesa Cattolica, che – pellegrinando di età in età tra mille opposizioni e mille insidie – avanza serena, nella luce anticipatale dal suo Sposo e Capo, verso la Gerusalemme celeste e il pieno avveramento del disegno del Padre.

Questa fede ci consente di “vedere” in ogni sacerdote celebrante il Sacerdote unico e vero della Nuova Alleanza, che nel santuario “non fatto da mani d’uomo” (cf Eb 9,11) è sempre in atto di offrire a Dio in sacrificio i suoi tribolati giorni terreni, la sua morte espiatrice, il suo inesauribile amore filiale. E sempre la fede ci aiuterà a ravvisare la Vittima di quel sacrificio celeste e perenne proprio nel “pane santo della vita eterna” e nel “calice dell’eterna salvezza”, che nel gesto eucaristico è presentato alla maestà divina da tutta la famiglia dei credenti.

L’altare del cielo – è sempre la fede che ce lo dice – non è altra cosa dalla mensa su cui si svolge il nostro rito; perciò noi siamo fatti certi che “comunicando al santo mistero del corpo e del sangue” del Figlio di Dio, posto mistericamente nelle nostre mani, noi riceviamo la “pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo”.

Il Signore ci conceda di lasciarci incantare dalla bellezza del dono di Dio e, almeno in questa sera del Giovedì Santo, ci conduca ad assaporare in letizia tutta la fortuna di appartenere alla santa Chiesa Cattolica, che dal sacramento misterioso e ineffabile del “Corpo dato” e del “Sangue versato” è quotidianamente avvivata ed edificata.

01/04/1999
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