Incontro insegnanti

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         Ho desiderato come molti di voi questo incontro. Siamo agli inizi di un nuovo anno scolastico, e vogliamo ripartire con nuovo slancio, con una forza morale più potente delle difficoltà che incontreremo.

         Ho detto “vogliamo”. Amo infatti profondamente la scuola: vi ho passato trent'anni della mia vita. Ma amo la scuola anche e soprattutto perché nel momento di trasformazione epocale che stiamo attraversando, la scuola è il luogo principale, assieme alla famiglia, in cui la persona umana è educata ad affrontare la realtà. Se la scuola fallisce, la parola fine è detta sulla vita del nostro popolo.

         Vorrei muovermi nella mia riflessione alla luce di quanto Papa Francesco ha detto alla scuola italiana – statale e paritaria – il 10 maggio scorso.

1.      «La scuola è sinonimo di apertura alla realtà». Cari insegnanti l'apertura alla realtà è il compito essenziale della scuola, di ogni ordine e grado.

         La persona umana, dal punto di vista spirituale nasce non quando diventa capace di dubitare; è stato questo un grave errore, che ha avuto effetti devastanti anche sulla dottrina e sulla pratica dell'educazione. La persona nasce quando constata, apprende la realtà; in primo luogo la realtà delle persone. Quando nella storia di una persona accade l'incrocio fra il sorriso della madre e il sorriso del bambino, la persona è nata perché ha preso coscienza di essere dentro una realtà che lo precede, lo accoglie, e lo provoca ad una risposta: l'esistenza e l'amore della madre. E' stato Virgilio a descrivere in modo sublime questo evento, quando nell'Egloga quarta, rivolgendosi ad un neonato, gli dice: «incipe parve puer, risu cognoscere matrem». Il senso virgiliano è intenzionalmente ambiguo: è l'invito fatto al bambino di risvegliarsi cominciando a riconoscere una donna dal modo con cui gli sorride? Oppure è l'invito fatto al bambino di cominciare a constatare la positività della realtà sorridendo alla donna che lo ho generato?

         Vorrei spiegare lo stesso concetto di “apertura alla realtà” partendo da un mito basilare della nostra civiltà: il mito platonico della caverna. Ecco come lo riassume un grande studioso di Platone.

         “Platone in questo mito immagina uomini che vivono in una caverna sotterranea, che ha un ingresso, attraverso il quale si sale verso la luce, largo quanto la caverna stessa. Immagina inoltre che gli uomini che abitano in questa caverna siano con le gambe e con il collo legati in modo tale da essere come immobilizzati, e quindi, incapaci di girarsi. Trovandosi in questa posizione, tali uomini non possono guardare se non verso il fondo della caverna.

         I prigionieri, legati con terribili ceppi, che non permettono loro di voltarsi, non possono vedere altro che il fondo della caverna” [su cui il sole proietta l'ombra delle cose], e pensare che questa sia la realtà [cioè l'ombra delle cose] [G. Reale, Platone, Alla ricerca della Sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998, pag. 295].

         Non si poteva narrare meglio il processo mediante il quale la scuola compie la sua missione di aprire la persona umana alla realtà.

         La persona si trova per così dire “dentro la caverna” e pensa di vedere le cose come sono, in realtà vede ombre, immagini. Viene da pensare in questo momento al tempo passato dai nostri ragazzi nel mondo c.d. virtuale: come gli schiavi dentro la caverna.

         Il processo di cui stiamo parlando – dalle ombre alla realtà – è un processo che potremmo chiamare di “conversione”; è come un “girarsi dall'altra parte”. Non posso non citare un testo classico.

         «Conviene ritenere […] che l'educazione non sia quale dicono essere alcuni che ne fanno professione. Dicono infatti che, pur non essendoci nell'anima la conoscenza, essi ve la immettono, come se immettessero la vista in occhi di ciechi. […]

         Invece il nostro ragionamento mostra che questa facoltà presente nell'anima di ognuno, ossia l'organo con cui ognuno apprende, proprio come l'occhio non sarebbe possibile rivolgerlo dalla tenebra alla luce se non insieme con tutto il corpo, così bisogna girarlo via dal divenire con tutta intera l'anima» [Platone, Repubblica 518 B].

         Il S. Padre Francesco parla di aprire «la mente ed il cuore». Fate bene attenzione. Non solo la mente, ma anche il cuore. Ogni disciplina da voi insegnata è apertura alla realtà.

         Vorrei ora aiutarvi a comprendere qual è oggi il principale ostacolo all'apertura alla realtà da parte delle persone. Lo dico con una parola, che poi cercherò di spiegare: il pensare che il reale coincida con l'artificiale. Se nella mente e nel cuore del ragazzo, del giovane si insinua questa riduzione della realtà all'artificiale, non solo l'apertura alla realtà è molto limitata, ma la persona si interdice l'incontro colle realtà più belle.

         Non saranno mai capaci di aprire la finestra della loro anima sulle ragioni più belle, più affascinanti dell'universo dell'essere.

         Mi spiego. Chiamo “artificiale” ciò che esiste per opera dell'uomo, sia in senso materiale che spirituale. Faccio qualche esempio.

         Che questa cosa sia un orologio o una penna stilografica dipende dal modo con cui l'artigiano ha manipolato, ha formato i materiali. La “forma” dell'orologio è opera dell'uomo. E' artificiale. Così come la penna stilografica.

         Altro esempio. Pensate all'organizzazione giuridica del lavoro. Quale diversità a partire dalla prima rivoluzione industriale fino ai nostri giorni! Essa [l'organizzazione giuridica del lavoro] è opera dell'uomo.

         Gli esempi potrebbero continuare, ma mi fermo a riflettere un momento sul secondo. L'organizzazione del lavoro è opera lasciata semplicemente alla contrattazione sociale, un fatto totalmente negoziabile? Nessuno oggi pensa di sì. Essa deve rispondere ad esigenze di giustizia; deve riconoscere nel lavoro una preziosità, a causa della quale esso non è semplicemente un fattore di produzione.

         Se sono riuscito a spiegarmi e mi avete seguito, considerando un fatto sociale, noi in esso abbiamo constatato che la sua eventuale riduzione ad un fatto artificiale, ci impedisce di percepire in esso una dimensione, diciamo pure la grande parola: una verità, che è indisponibile alla contrattazione umana. Non è sottoposto a contrattazione, a legislazione sempre mutevole il “prezzo etico” del lavoro.

         Posso costruire un orologio in un modo o nell'altro, una stilografica in un modo o nell'altro: siamo nella realtà, costruita, artefatta dall'uomo. Ma non posso [=non devo] organizzare il lavoro partendo da una definizione dello stesso come mero fattore di produzione oppure, a scelta, dalla definizione contraria. La realtà non è tutta e solo artificiale, costruita dall'uomo. E' in sé e da sé che il lavoro umano ha una dignità etica, non perché così si è contrattualmente deciso.

         Da che cosa nasce oggi il rischio nella persona che stiamo educando, di far coincidere la realtà con l'artificialità? E quindi a che cosa dobbiamo fare attenzione come educatori perché il cuore e la mente dell'educando non si chiudano?

         Molti fattori patogeni possono causare quella grave malattia. Non posso fermarmi su questo. Vi dico solo: vigilate molto su questo.

2.      «La scuola è sinonimo di incontro». Si tratta della missione che la scuola ha di “socializzare” la persona, di educare alla socialità.

         E' questa una missione di particolare importanza oggi. Partiamo da una certezza, di cui l'educatore deve essere continuamente consapevole: la persona umana è naturalmente socievole. Naturalmente significa che l'educazione alla socialità non parte da zero. La persona ha già in sé il desiderio di socializzare. Riprenderò fra poco questo tema.

         L'educatore deve vigilare per non condividere un concetto riduttivo dell'educazione alla socialità, oggi molto frequente. Esso consiste nel far coincidere la socialità con il rispetto delle regole. L'errore non consiste, come spesso accade, in ciò che è affermato: non c'è socialità senza rispetto delle regole; consiste nella negazione: non esiste socialità oltre a questo.

         Perché in Occidente si è cominciato a pensare in questo modo […e non si è ancora smesso]? Perché si è negata la naturale socialità dell'uomo, riducendo il grandioso concetto di persona, ricevuto dal cristianesimo, al concetto di individuo.

         La diversità è fondamentale. Anche una pianta è un individuo, ma non è una persona. La persona è costitutivamente relazionata ad altre persone. La prima fondamentale relazione è – come abbiamo visto – quella del figlio colla madre; poi col padre, i fratelli, le sorelle. Poi si entra a scuola.

         Non è che l'individuo umano possa vivere senza entrare in relazione con altri, ma poiché ciascuno – molti pensano – è per natura chiuso ermeticamente in se stesso, cioè alla ricerca del proprio bene individuale, la società è la coesistenza di egoismi opposti. Una coesistenza che non può ovviamente sussistere senza regole. La società è la coesistenza regolamenta di egoismi opposti.

         Perché ridurre l'educazione alla socialità al rispetto delle regole è riduttivo? Perché la persona umana è capace di una socialità più profonda, più intima alla persona: è capace di conoscere e soprattutto di amare con un amore di benevolenza. E' questa la grandezza specifica ed unica della persona. La conoscenza e [in grado massimo] l'amore, le consentono di trascendere se stessa, di uscire da se stessa; gli fanno compiere quel passo oltre se stesso che D. Hume riteneva impossibile. I grandi teologi del medioevo dicevano: ubi amor, ibi oculus.

         Esiste dunque un “bene comune” che è la societas personarum, che può diventare communio personarum.

         Come vedete, l'educazione alla socialità è una missione grandiosa: educare la persona ad essere, a dimorare nel bene di una reciprocità, di una rete di correlazioni in cui ciascuno cresce in umanità perché è con gli altri, semplicemente perché è bello, è bene, è giusto vivere la propria umanità come co-umanità.

         Approfondiamo brevemente questo punto, data la sua importanza. Tre sono gli eventi che hanno forgiato la coscienza dell'uomo occidentale a vivere la socialità in questo modo.

         Il primo è stato il dono della Legge fatto da Dio per mezzo di Mosè al popolo d'Israele dopo la liberazione dalla schiavitù dell'Egitto. La liberazione era l'atto di nascita di quel popolo, l'evento fondatore. Il dono della Legge doveva custodire la costituzione di questo popolo, perché la ricerca di una libertà puramente individuale eo la prepotenza del più forte sul più debole non erodesse, e alla fine distruggesse la realtà di un popolo.

         Il secondo evento è stata la polis greca. Essa è l'esperienza di una comunità fondata sul dia-logo [δια-λογος], cioè sulla comune partecipazione alla stessa ragionevolezza e capacità di scoprire la verità circa il bene. Una scoperta che può avvenire solo attraverso la condivisione del logos, cioè il dialogo. Esso non è lo scontro fra avversari, ma la ricerca comune di ciò che è vero e buono.

         Il terzo evento è la scoperta da parte di Roma della res publica, cioè di una realtà [una res] che è di tutti e di ciascuno [publica], per cui la salus  di questa res publica era la suprema lex.

         Vedete: in ciascuna di queste tre esperienze c'è un dato comune. Esiste un “prima” di ogni regola, perdendo il quale le regole non avranno più senso; saranno sempre meno osservate; diventeranno quindi sempre più numerose. Tacito col suo stile lapidario aveva già narrato perfettamente questo fenomeno: corrupta republica, plurimae leges. Corrotto ciò che ci unisce, si moltiplicano le leggi.

         Mi ha sempre molto colpito il fatto che nella proposta cristiana la salvezza definitiva sarà una città «il cui architetto e fondatore è Dio stesso». Essa scenderà dal cielo, ma avrà elementi costitutivi umani: le dodici tribù di Israele; i dodici apostoli.

         Non vi ho detto nulla che attenga alla didattica. Mi premeva dirvi la prospettiva fondamentale dell'educazione alla socialità. Se si ha chiara la meta, anche il cammino – anche se difficile – sarà sicuro. Penso che oggi questa sia la sfida educativa più importante e forse più difficile. Per convincersene basta guardare alla drammatica disgregazione sociale, alla dissoluzione di ogni vincolo, all'esaltazione della categoria del diritto soggettivo fino a cancellare dal vocabolario sociale la parola ed il concetto di dovere.

3.      «La scuola ci educa al vero, al bene, al bello». Con questa affermazione giungiamo alla radice della missione della scuola. Si potrebbe dire che l'educazione al vero, al bene, al bello è il meridiano che attraversa tutti i paralleli, tutte le dimensioni della missione educativa della scuola.

         Il punto di partenza per comprendere ciò di cui parliamo è la certezza che l'educazione non può essere neutra. E quindi delle due l'una: o la scuola ha una missione educativa ed allora non può essere neutra o la scuola è per definizione neutrale ed allora non può avere missione educativa.

         Cerco di spiegarmi. Parlare di neutralità della scuola significa che l'insegnante deve esclusivamente limitarsi ad insegnare, a trasmettere conoscenze, senza alcuna proposta educativa.

         Una tale posizione è astratta, avulsa dalla realtà, ed impossibile a realizzarsi.

         La scuola, infatti, istituisce un rapporto fra due persone umane, di cui l'una – l'insegnante – ha una responsabilità nei confronti dell'altra. Responsabilità di che cosa? Del bene dell'altro. Ora si può essere responsabili del bene dell'altro senza una vera passione, un profondo interesse per esso? Può un insegnante pensare, in coscienza: “di voi non ho alcun interesse”? Non lo credo.

         Se si istituisce un rapporto, nella scuola, in cui l'insegnante è veramente appassionato del bene dell'alunno, non può non trasmettere, attraverso la sua testimonianza, un progetto di vita, che egli ritiene sia quello vero, buono, bello.

         In realtà, l'ideologia della scuola neutrale ha radice in un errore antropologico che sta producendo devastazioni nell'umanità dei nostri ragazzi. E' l'errore che consiste nel pensare che la trasmissione educativa di un progetto di vita sia contrario alla libertà della persona. Educare e liberare sarebbero due realtà contrarie.

         L'errore nasce dal concepire la libertà come mero spontaneismo. Anche gli animali sono spontanei, ma non sono liberi. La libertà si radica nella ragionevolezza; la persona è libera perché è consapevole di ciò che sceglie, e delle ragioni per cui sceglie ciò che sceglie. Trasmettere un progetto di vita rende precisamente capaci di accoglierlo o rifiutarlo, consapevolmente. Rende liberi.

          Per capire ciò che sto dicendo, occorre tener presente che la trasmissione di un progetto di vita, nella quale consiste l'atto educativo, avviene per testimonianza. Non è imposizione, ma proposta.

         Se la scuola dunque non può, non deve essere neutrale, è perché ci educa al vero, al bene, al bello. Vorrei ora proporvi alcune riflessioni al riguardo, e concludere.

         Che cosa significa educare al vero? Educare all'uso della ragione [come facoltà umana] o alla razionalità [come proprietà specificatamente umana del discorso e dell'agire], in quanto è mediante la ragione che l'uomo conosce il vero.

         Ora la ragione si presenta sempre come esperienza di un rapporto, come lo spazio aperto del soggetto umano in cui la realtà emerge come un dato. Vivere ragionevolmente significa vivere realmente. Educare alla verità significa educare all'uscita originaria da se stessi, dal “mi piace – non mi piace”, “mi è utile – mi è dannoso”, per dire semplicemente “è così – non è così”.

         Faccio un esempio. Il giovane studia un dialogo platonico. Egli, mediante quella lettura e quello studio, guidato dal suo insegnante-educatore, arriva a conoscere ciò che Platone pensa a riguardo della morte, dei fondamentali della democrazia, ecc. Un'insegnate che educa al vero si accontenta a questo punto? Assolutamente no. Deve aiutare l'alunno a porsi la domanda fondamentale: ma ciò che Platone dice circa la morte, i fondamenti della democrazia, ecc. è vero o è falso?

         Che cosa significa educare al bene? La risposta a questa domanda è molto difficile. In primo approccio significa “educare alle virtù”, delle quali – non dimentichiamolo mai – i “semi” sono già presenti nello spirito del bambino.

         Se l'educazione al vero è l'educazione all'uso retto della ragione, l'educazione al bene è l'educazione all'esercizio della libertà. Penso che la testimonianza sia lo strumento fondamentale.

         Che cosa significa educare al bello? Educare ad essere estasiati [uscire da se stessi] di fronte ad una realtà in cui rifulge un ordine, una “forma”, un'armonia che rapisce tutta la persona e la trasforma.

         E' l'educazione a ciò che è degno di esserci in se stesso e per se stesso. Mi spiego con un esempio. Su ogni edificio deve esserci il tetto, per ovvie ragioni. Che ragioni c'erano che Michelangelo costruisse la cupola, invece di un normale tetto? Meno difficoltà, minor spesa. Una sola: la cupola è bella. E' in sé e per sé degna di esserci. Non è facile, oggi, l'educazione al bello, poiché siamo tutti ammalati di utilitarismo e della mentalità capitalista secondo la quale ogni realtà vale per ciò che costa o per ciò che può farti guadagnare.

4.      Concludo. La missione della scuola oggi è più che mai necessario sia adempiuta. E' divenuto molto arduo, ma forse la scuola è rimasta la sola zattera perché le nuove generazioni non naufraghino nel mare torbido del relativismo, dell'individualismo, del convenzionalismo.

 

 

11/09/2014
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