Desidero iniziare questa breve riflessione da due importantissime affermazioni di Papa Leone XIV che, fin dal suo saluto iniziale rivolto alla piazza e al mondo intero, disse: “Pace a voi”, chiedendo così a tutti di disarmare il cuore, le mani e le menti per disarmare un mondo che sta stipando gli arsenali, svuotando di conseguenza i granai, gli ospedali e le scuole. Da allora, ogni settimana, con insistenza e drammatica consapevolezza, sempre accompagnata da speranza paziente e mite come nella sua persona, Papa Leone XIV ha continuato la supplica di quella povera vedova che è la Chiesa, così poco ascoltata dai giudici iniqui di questo mondo, vicini e lontani che, con eleganza o evidente fastidio, non prendono sul serio i suoi accorati appelli.
Il Papa ha detto: «Il mondo ha sete di pace: ha bisogno di una vera e solida epoca di riconciliazione, che ponga fine alla prevaricazione, all’esibizione della forza e all’indifferenza per il diritto. Basta guerre, con i loro dolorosi cumuli di morti, di distruzioni, di esuli!». «Non parole gridate, non comportamenti esibiti, non slogan religiosi usati contro le creature di Dio. Tutti i credenti sono fratelli. E le religioni, da “sorelle”, devono favorire che i popoli si trattino da fratelli, non da nemici. Con mani nude alzate al cielo e con mani aperte verso gli altri, dobbiamo far sì che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e inizi una storia nuova. Basta! È il grido dei poveri e il grido della terra. Basta! Signore, ascolta il nostro grido!». Ha citato La Pira che si augurava iniziasse “la storia dell’età negoziale”, la storia di un mondo nuovo senza guerra. Che grande prospettiva quella del dialogo tra le Chiese e tra i credenti per affratellare anche i popoli! E se non lo facciamo cosa avviene? Non atteggiamenti esteriori, che finiscono per usare i simboli religiosi e svuotarli di significato o di renderli strumentali a scelte che non hanno niente a che fare con la fede, ma quello che Papa Leone XIV chiede è un atteggiamento di preghiera e di solidarietà, intimamente unite l’una all’altra.
Poche settimane or sono si è rivolto agli abitanti di Lampedusa aggiungendo alla globalizzazione dell’indifferenza, tanto sottolineata da Papa Francesco, la globalizzazione dell’impotenza. «Davanti all’ingiustizia e al dolore innocente siamo più consapevoli, ma rischiamo di stare fermi, silenziosi e tristi, vinti dalla sensazione che non ci sia niente da fare. Cosa posso fare io, davanti a mali così grandi? La globalizzazione dell’impotenza è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova. Come alla globalizzazione dell’indifferenza Papa Francesco oppose la cultura dell’incontro, così vorrei che oggi, insieme, iniziassimo a opporre alla globalizzazione dell’impotenza una cultura della riconciliazione. Riconciliarsi è un modo particolare di incontrarsi. Oggi dobbiamo incontrarci curando le nostre ferite, perdonandoci il male che abbiamo fatto e anche quello che non abbiamo fatto, ma di cui portiamo gli effetti». «Il bene si trasmette e sa essere più forte! Per praticarlo, per rimetterlo in circolo, dobbiamo diventare esperti di riconciliazione. Bisogna riparare ciò che è infranto, trattare con delicatezza le memorie che sanguinano, avvicinarci gli uni agli altri con pazienza, immedesimarci nella storia e nel dolore altrui, riconoscere che abbiamo gli stessi sogni, le stesse speranze. Non esistono nemici: esistono solo fratelli e sorelle. È la cultura della riconciliazione. Servono gesti di riconciliazione e politiche di riconciliazione».
Ecco l’impegno che Papa Leone XIV ha chiesto a tutti, perché è possibile a tutti e il cristiano, se cristiano, è operatore di pace. Sappiamo bene come facilmente per paura o per rabbia, per rassegnazione sofferta o pigra, ci rifugiamo nella facile convinzione che non si può fare nulla, che niente valga la pena. Quante occasioni perdute! C’è un invito molto fermo: riparare le memorie che sanguinano, perché non indeboliscano la convivenza sempre così piena di solitudine e di dolore nascosto. Sempre Papa Leone XIV si è rivolto ai Vescovi italiani, quindi a tutte le chiese del nostro Paese e ha aprendo una prospettiva importante e nuova: il Vangelo della pace e della riconciliazione.
«Il Signore, infatti, ci invia al mondo a portare il suo stesso dono: “La pace sia con voi!”, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione. Auspico, allora, che ogni Diocesi possa promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro. Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa».
Siamo un mondo in guerra e siamo nell’età della forza. C’è un’immensa richiesta di aiuto che sale da un unico popolo di sofferenti, il nostro popolo, sono tutti pezzi della Guerra Mondiale, essi coinvolgono ognuno di noi e tutti ne siamo parte. Molte di queste guerre si consumano fuori dalla luce dell’informazione, quindi nel buio dell’impunità, dell’indifferenza, come avviene nei villaggi del Nord Mozambico, del Kivu o del Sud Sudan, che hanno provocato l’esodo di centinaia di migliaia di persone. In realtà, in un mondo che ha un accesso all’informazione straordinario, la torcia per illuminare questi Paesi avvolti nell’ombra l’ha in mano ognuno di noi. Non dobbiamo diventare familiari di questi pezzi della guerra così dimenticati? I cristiani non possono non farlo e da loro deve sorgere una cultura, cioè una conoscenza, che faccia capire, sfuggendo alle ricostruzioni dei “buoni-cattivi”, alle polarizzazioni, alle letture ignoranti che interpretano tutto secondo le nostre categorie e fanno scegliere da che parte stare invece di aiutare la pace.
Ecco perché parliamo di pace. Ce lo chiede Cristo, nostra pace, che ce l’affida, ma non per tenercela noi dimenticandoci degli altri, non per chiudersi come fosse uno dei tanti tranquillanti per dimenticare, bensì proprio per costruirla, donarla, spenderla, per fare qualcosa, incontrandolo nei suoi fratelli più piccoli e poveri, insomma, per essere artigiani di pace. Questo è ciò che ci è chiesto. È possibile solo ad alcuni? Interessa solo agli specialisti o a chi ha potere? Tutti abbiamo il potere di dichiarare pace al mondo, di ripudiare la guerra, di rimettere la spada nel fodero, di costruire relazioni di pace. Silvano del Monte Athos ricordava che “chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, nemmeno se fosse posto in paradiso”. E questo dipende da noi. C’è una responsabilità nell’essere persone di pace: se tanti troveranno la pace questa si propagherà di suo, come il bene. San Serafino di Sarov diceva: «Acquista la pace e migliaia intorno a te troveranno la salvezza». Artigiano di pace significa che tutti possiamo esserlo. Il cristiano è chiamato ad essere uomo di pace. Spesso lo dimentichiamo, ma noi non dobbiamo dire nemmeno pazzo a nostro fratello! La spada va riposta subito nel fodero se non vogliamo perire di spada. Il nemico si ama, e si combatte l’unico nemico, che è il male, con l’unica arma che funziona, l’amore. Le altre armi producono solo altro male. “Ma io vi dico”, ci dice Gesù. Continuiamo a sentire quello che fu detto, che è detto: occhio per occhio, a volte con una veemenza rinnovata e digitale, tanto che sembra l’unica via per preparare la pace, armarci, para bellum. “Ma io vi dico”. È questa la pace e la non violenza dei cristiani. Occorre sempre partire dalle vittime. Da Abele. Non entriamo nelle polarizzazioni così pericolose, non lasciamoci intossicare dalle cause della guerra e non accettiamo che l’umanitario diventi oggetto di discussione di parte, perché è la parte del cristiano, alla quale non dobbiamo mai rinunciare e che non può mai diventare motivo di discussione. Giusta è solo la pace, e solo chi è libero da ciò che prepara la guerra la può fermare e così non perdere mai l’umanità. Per questo la Chiesa non è neutrale e sta sempre dalla parte delle vittime.
Per Dio non c’è differenza tra di loro: morti innocenti, civili per la gran parte, oltre ogni nazionalità o etichetta che ci possa mettere la politica o la comunicazione. La Chiesa prende posizione per chi muore, per chi soffre, per chi è dimenticato. Essere non violenti è stare dalla parte delle vittime e non lasciarsi trascinare dall’ingranaggio dei torti e delle ragioni. La non violenza è dissociarci dalla violenza che ha colpito le vittime e di non utilizzarle per accusare il nemico con una contabilità macabra dei morti. Non violenza è usare le armi della parola, del dialogo, anche quando sembra che nessuno ascolti. Metodo non violento è pensare di non avere dei nemici, a prescindere.
Umberto Eco, a tal proposito, racconta un bell’episodio. A New York un tassista pakistano, che non conosceva l’Italia, voleva capire di che Paese si trattasse e gli chiese quali fossero i nostri nemici. «Al mio prego? — narra Eco — ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l’ultima guerra l’abbiamo fatta più di mezzo secolo fa e, tra l’altro, iniziandola con un nemico e finendola con un altro. Non era soddisfatto. Com’è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici?». Questo è iscritto nella nostra Carta costituzionale, della quale non dobbiamo mai mettere in discussione lo spirito, indispensabile per capirne e viverne la lettera. Si tratta di una consapevolezza frutto amarissimo del dolore immenso della guerra, anzi delle due Guerre Mondiali. Da quelle macerie hanno sognato la pace, l’architettura della pace i tre pezzi uniti l‘uno all’altro: ripudio della guerra, perdita di sovranità in condizione di uguaglianza e sostegno agli organismi internazionali.
Ma cosa vogliono dire pace e non violenza? I primi sono i militari cristiani. Oggi martiri. Non fa più la guerra. Tanti scelsero la non violenza. Un primo proto-movimento pacifista sorse infatti nel corso del 1600 dentro alcune Chiese di origine protestante, ad iniziare dai Mennoniti e dai Quaccheri che inventarono l’obiezione di coscienza. Il loro slogan fu: “C’è Dio in ognuno”. Di conseguenza si rifiutarono di andare in guerra e divennero radicalmente “nonviolenti”. Sono costoro ad inventare la “protesta silenziosa”, ovvero le marce e i sit-in odierni. Nel secolo successivo gli si affianca un pensiero laico nonviolento di impostazione illuminista. Il precursore è Immanuel Kant, autore del famoso “Pax perpetua” dove tra l’altro scrive: “la guerra elimina meno malvagi di quanti ne produca”. All’inizio del Novecento vi fu il Mahatma Gandhi. Nel XIX secolo vedono la luce le prime società nonviolente, spinte anche dallo scandalo suscitato dall’utilizzo di armi sempre più micidiali. Quasi contemporaneamente negli Stati Uniti si svolge la terribile carneficina della guerra di secessione (1861-65) che si stima abbia prodotto 700.000 morti. Lo choc fu immenso. A metà secolo Henri Dunant fonda la società della Croce Rossa (oggi Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra ICRC/CICR) con l’obiettivo di umanizzare la guerra. Dunand ha toccato personalmente con mano le conseguenze delle terribili battaglie di San Martino e Solferino (1859). L’idea di Dunant non è pacifista in senso stretto, ma quella di creare delle norme per regolamentare i conflitti, da cui nascono le convenzioni di Ginevra. Ad ogni modo la novità di Henri Dunant è la connessione tra difesa della vita e pace: tutto il diritto umanitario attuale deriva dal suo iniziale impulso. Da tali fermenti nascono i Congressi internazionali della pace, voluti dalle numerose associazioni laiche per la pace. Il primo Congresso ha avuto luogo a Parigi nel 1849 a cui segue una lunga serie di appuntamenti con cadenza quasi annuale, fino al 1939. Nella seduta di apertura della Conferenza da lui presieduta, Victor Hugotenne un appassionato discorso in cui preconizzava la nascita degli «Stati Uniti d’Europa» che avrebbe finalmente imposto la pace universale. All’inizio del XX secolo, dopo la Prima Guerra Mondiale (che vide l’uso del gas come arma con numerose reazioni negative), in ambito intellettuale europeo ci si interroga su cosa fare in presenza della capacità distruttiva estrema delle armi (la medesima domanda era stata posta durante il Rinascimento, all’inizio dell’uso delle armi a scoppio, ma si trattò piuttosto di un discorso sulla nobiltà del combattere). Gandhi si collega con tali riflessioni inventando la strategia nonviolenta della “non collaborazione”, usata in India e ripresa in seguito dai danesi durante l’occupazione nazista. La riflessione verte attorno a quale possa essere la reazione “civile” alla forza brutale. Da ricordare che, durante il conflitto, l’appello contenuto nella Nota del 1917 di Benedetto XV (in cui il Papa denunciava “l’inutile strage”) non venne ascoltato: la maggioranza dei cattolici e degli ecclesiastici era ancora immersa nel clima patriottico di quegli anni e la respinse (sui giornali francesi si parlava di “Pilato XV”). Il periodo tra le due Guerre Mondiali vide una ristrutturazione del movimento pacifista europeo nato nell’Ottocento: lo choc per la Grande Guerra è stato violentissimo, le vittime (moltiplicate con quelle della pandemia “spagnola”) erano state tanto ingenti da provocare un regresso demografico in diversi Paesi; le ferite politiche rimaste quasi tutte aperte; il lungo processo dei trattati di pace (che va avanti fino al 1925) insoddisfacente e pieno di recriminazioni (in Italia si parlava di vittoria mutilata; in Ungheria di tradimento col Trattato del Trianon). Tutto questo provocò un rancore sociale diffuso e una crisi economica permanente che riceverà uno choc ulteriore con la caduta delle borse nel 1929. Com’è noto tale clima sarà sfruttato dai movimenti ultranazionalisti e fascisti degli anni Venti e Trenta per affermarsi.
Tuttavia, nel dopoguerra venne alla luce l’episodio della tregua spontanea del Natale del 1914 (e parzialmente del 1915) che sul momento fece scandalo nei circoli patriottici ma rivelò il sentimento cristiano nonviolento radicato nel cuore dei popoli europei. Gli sforzi per un discorso di pace e per una politica umanitaria ripresero con la nascita della Società delle Nazioni: è il punto più alto del multilateralismo nascente, che produsse molte iniziative tra le quali giova ricordare il passaporto Nansen (che oggi non esiste più mentre sarebbe molto utile) per i rifugiati e gli apolidi, utilizzato subito dopo la Grande Guerra per le varie crisi di profughi (strage degli armeni, scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia).
Nel secondo dopoguerra il comunismo internazionale sostiene i movimenti rivoluzionari e le guerre di liberazione dal colonialismo. L’idea pacifista del socialismo umanitario ottocentesco lascia il posto alla posizione dei comunisti, divisi tra manipolazione del discorso della pace e supporto alle lotte armate. Ma, soprattutto, dopo la Seconda Guerra Mondiale il mondo pacifista si deve confrontare con l’indicibile: l’abisso della Shoà che porta ad una viva consapevolezza sull’assurdità della guerra. In Europa si afferma la coscienza del never again – mai più la guerra– che diventa l’eredità di un’intera generazione, autorevolmente ripresa dal grido di Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965: «Facciamo nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”. […] Non gli uni contro gli altri, non più, non mai!». Dentro l’universo della nonviolenza (in particolare obiettori di coscienza e antimilitaristi) si fa strada l’idea della totale abolizione della guerra e non solo dell’attenuazione dei suoi effetti o della sua umanizzazione. Nel “ripudio” della Costituzione italiana c’è tale convinzione. Lo aveva già chiesto don Sturzo dopo la Prima Guerra Mondiale: «Il problema, pertanto, che noi ci poniamo è questo: “Se e come l’istituto della guerra sia eliminabile nell’organizzazione internazionale”. Non intendiamo, quindi, parlare della eliminabilità di un qualsiasi arbitrario e condannevole ricorso all’uso delle armi, ma della eliminabilità del “diritto” di guerra, così che ogni guerra, anche la cosiddetta guerra di difesa, non sia più l’esercizio di un diritto ma un abuso, e quindi non sia mai legittima ma sempre illegittima». In Italia la data simbolica della rinascita del movimento nonviolento per la pace nel secondo dopoguerra è quella della prima marcia Perugia-Assisi del 24 settembre 1961, voluta da Aldo Capitini, un cattolico dissidente già imprigionato durante il fascismo. La “Marcia per la pace e la fratellanza fra i popoli” venne organizzata in maniera da non essere riconducibile ai due schieramenti della guerra fredda. Si trattò di una piccola marcia, una specie di processione, la “marcia dei fratelli” come la chiamava lo stesso ideatore. Aldo Capitini è cristiano e gandhiano: per lui le figure della pace sono Francesco e Gandhi. All’inizio è un isolato a cui vanno le simpatie dei cattolici del dissenso e di alcuni laici come Norberto Bobbio o Carlo Galante Garrone. Lo appoggiano Giovanni Arpino, Italo Calvino, Renato Guttuso, Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Ernesto Rossi. Scrive Capitini: «Questi quattro caratteri della Marcia mi sono stati chiarissimi fin dal 1960: che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; che la Marcia dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; che la Marcia fosse l’occasione per la presentazione e il “lancio” dell’idea del metodo nonviolento al cospetto di persone ignare o riluttanti o avverse; che si richiamasse il Santo italiano della nonviolenza (e riformatore senza successo)».
Dal mondo cattolico ufficiale si inizia a guardare con simpatia al pacifismo nonviolento a partire soprattutto da Giovanni XXIII. Nella storia della Chiesa ci sono già state testimonianze luminose di amore per la pace, come l’insegnamento di Francesco d’Assisi o gli esempi di Erasmo da Rotterdam (che critica la violenza religiosa) o di Bartolomeo de Las Casas che difende gli indigeni in America da violenza e schiavitù. Più recentemente c’erano stati don Milani o don Mazzolari, ma la svolta profonda avviene con la Pacem in Terris di Papa Giovanni XXIII. La crisi dei missili di Cuba mostra la forza pacificatrice della Chiesa cattolica: il Papa interviene personalmente. La pace diviene sinonimo di dialogo ed entra a pieno titolo a far parte della dottrina della Chiesa. Inizia il superamento della dottrina della “guerra giusta” di Sant’Agostino, fino a quel momento dominante.
Un altro grosso cambiamento avviene negli Usa con l’opposizione alla guerra del Vietnam. Pace e nonviolenza divengono valori gemelli: “non uccidere”, “non nel mio nome”. È una scossa per tutta la cultura occidentale. In precedenza tra il 1952 e il 1955 durante la guerra di Corea, circa diecimila obiettori di coscienza americani erano finiti in carcere. Nella Seconda Guerra Mondiale ve ne erano stati 75.000. Una svolta avviene con il dialogo interreligioso voluto da Giovanni Paolo II a Assisi nel 1986. La pace diventa il grande tema della chiesa cattolica (il Papa diceva: “la pace è nostra!”) che invita le religioni a farsi paladine nonviolente della convivenza pacifica. La caratteristica di tale corrente pacificatrice: Giovanni Paolo II lavora alle transizioni pacifiche dalle dittature alla democrazia. Il Papa apre a tutti il “cantiere della pace”: invita cioè cristiani e credenti a lavorare fattivamente per la pace. La conseguenza di tale intuizione sarà il lavoro per la pace della Santa Sede (arbitrato sul Canale di Beagle, tentativi durante le guerre del Golfo o la mia missione attuale per l’Ucraina ecc…), o l’impegno della Comunità di Sant’Egidio che si specializza nelle mediazioni nei conflitti armati.
L’inizio degli anni Novanta è difficile per i nonviolenti: l’attacco all’Iraq è sostenuto dall’ONU e questo spiazza. Poi la guerra di Bosnia mette in crisi il movimento, accusato di essere imbelle davanti all’aggressività serba. Molte ONG finiscono per sostenere l’intervento militare umanitario al fine di spezzare l’accerchiamento di Sarajevo. Ma l’apporto dei cattolici crea una forma di resistenza nonviolenta: si recano in zona di guerra tentando la riconciliazione e l’interposizione. Beati i costruttori di pace, Pax Christi e comunità Giovanni XXIII organizzano marce non violente a Sarajevo, Mostar e altre zone. È una testimonianza importante, della quale il leader riconosciuto è don Tonino Bello. L’operazione Colomba della Comunità papa Giovanni XXIII si concretizza: interporsi nei villaggi dove c’è il conflitto e tentare la riconciliazione attraverso l’amicizia e il dialogo. L’idea cattolica è farsi presidio nonviolento; organizzare l’interposizione non armata tra i combattenti; divenire scudi umani (alcune associazioni iniziano a farlo in Palestina, in Colombia, in Libano). L’esperienza tocca molte località attorno Mitroviça, Knin, Plavno, Vukovar o anche nel Chiapas messicano, per condividere e riconciliare, senza prendere le parti di qualcuno.
La “guerra umanitaria” degli anni Novanta aveva reintrodotto concettualmente la possibilità di una guerra giusta, dottrina che pareva ormai superata, facendo compiere alla coscienza internazionale un passo indietro piuttosto che un ulteriore avanzamento sulla via del ripudio della guerra. Con la nuova guerra del Golfo, effetto dell’attentato alle Torri Gemelle del settembre 2001, e dopo l’attacco all’Afghanistan, il movimento pacifista nonviolento si rianima davanti alla possibilità che il conflitto si allarghi. Nel 2003 avvengono le più grandi manifestazioni per la pace mai viste: 120 milioni di manifestanti in contemporanea; la prima grande manifestazione globale del 15 febbraio 2003. Si manifesta in 250 città americane (mai fatto) e in 105 città europee. A Londra è la più grande manifestazione da quella della vittoria nel 1945. A Roma si radunano in 3 milioni.
Come riuscire a “fare pace” in modo nonviolento è un problema per gli Stati che sostengono il multilateralismo, per la società civile internazionale e per la Chiesa. È un’illusione per sognatori o l’unica via possibile? Interessi enormi e l’unico interesse da cercare e difendere. La guerra viene oggi progressivamente sdoganata come strumento legittimo: siamo nel tempo della forza, del ritorno, anche nella semantica, della guerra e delle armi. Se il conflitto viene rivalutato il movimento nonviolento si indebolisce anche se raccoglie molte adesioni tra le popolazioni civili. Al fondo c’è una percezione diversa di cos’è il male, e del male assoluto rappresentato dalla guerra. Ci si arrende troppo facilmente alla sua ineluttabilità.
Restano iscritte nella coscienza collettiva le parole di Papa Francesco che nella “Fratelli tutti”esprime con decisione l’esperienza di umanità della Chiesa: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato”. Mai la guerra rende il mondo migliore. È la verità della storia. Tuttavia assistiamo a una diffusa “perdita del senso della storia”, dice l’enciclica. Se ne smarrisce la memoria nel presentismo egocentrico o in contrapposizione esacerbate. Le parole del Papa ci scuotono da un sonnambulismo che scaturisce dalla sola logica del conflitto: la guerra – aggiunge – «è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Il 28 ottobre scorso al Colosseo, alla conclusione del Meeting interreligioso annuale della Comunità di Sant’Egidio, intitolato significativamente “Osare la Pace”, Papa Leone XIV ha detto: «Con la forza della preghiera, con mani nude alzate al cielo e con mani aperte verso gli altri, dobbiamo far sì che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e inizi una storia nuova. Non possiamo accettare che questa stagione perduri oltre, che plasmi la mentalità dei popoli, che ci si abitui alla guerra come compagna abituale della storia umana. Basta! È il grido dei poveri e il grido della terra. Basta! Signore, ascolta il nostro grido!».
Vorrei concludere con queste parole così attuali di Papa Paolo VI, pronunciate più di cinquanta anni fa, con il suo invito all’umana creanza, così importante specialmente oggi che assistiamo alla messa in discussione, anche semantica, del ripudio della guerra, alla tentazione del sovranismo che indebolisce automaticamente le autorità sovranazionali capaci di comporre i conflitti, e alla delegittimizzazione degli organismi internazionali che, senza riforma e senza efficacia, non riescono a svolgere il loro ruolo, dalle Nazioni Unite a tutte le Agenzie, come il Tribunale penale internazionale.
Disse Papa Paolo VI in occasione della Giornata per la Pace del 1 gennaio 1970: «Bisogna mettere alla radice della nostra psicologia sociale la fame e la sete della giustizia, insieme con quella ricerca di pace, che ci merita il titolo di figli di Dio (Matth. 5, 6, 9). Non è utopia, è progresso, oggi più che mai reclamato dall’evoluzione della civiltà, e dalla spada di Damocle, d’un terrore sempre più grave e sempre più possibile, che le pende sul capo. Come la civiltà è riuscita a bandire almeno in linea di principio la schiavitù, l’analfabetismo, le epidemie, le caste sociali, malanni cioè inveterati e tollerati come fossero inevitabili e insiti nella triste e tragica convivenza umana, così bisogna riuscire a bandire la guerra. È la buona creanza dell’umanità che lo esige. È il tremendo e crescente pericolo d’una conflagrazione mondiale che lo impone. Non abbiamo, noi singoli e deboli mortali, alcun mezzo per scongiurare ipotesi di catastrofi devastatrici di dimensioni universali? Sì, che li abbiamo: abbiamo il ricorso all’opinione pubblica, la quale in questo frangente diventa espressione della coscienza morale umana; e tutti sappiamo quale ne può essere la salutare potenza. Abbiamo il nostro singolare e personale dovere: essere buoni, che non vuol dire essere deboli; vuol dire essere promotori del bene; vuol dire essere generosi, vuol dire essere capaci di rompere con la pazienza e col perdono la triste e logica catena del male; vuol dire amare, cioè essere cristiani. Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i Popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro; Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forsanche l’umanità; Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri, e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali; Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui; Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di tre guerre, ancora accese nel mondo; Signore, è vero! noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e per la trattativa; Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia la legge delle nuove generazioni; Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore; Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace”.
