Vorrei precisare subito in quale prospettiva intendo riflettere sul rapporto
fra «scienza ed etica».
Almeno in prima battuta, comunque non è mia principale intenzione addentrarmi
nella “casistica” del rapporto suddetto; affrontare cioè ambiti
specifici di ricerca nei quali può avvenire il confronto o scontro fra
scienza ed etica. La mia riflessione intende muoversi ad un livello più profondo,
come spero sarà chiaro.
1. Parto dal secondo termine del confronto, il termine «etica»,
essendo quello che conosco meglio.
Quando si pronuncia questa parola oggi si pensa subito ad un insieme di regole
di comportamento, nei confronti delle quali si pongono almeno due domande fondamentali:
chi le istituisce? quale è il loro senso? il problema etico è il
problema delle norme di comportamento.
Questa coincidenza è storicamente datata; né l’uomo ha
sempre posto la domanda etica in quei termini; né personalmente penso
che quella almeno sia la domanda etica fondamentale. Che cosa allora
l’uomo chiede quando pone la domanda etica? Consentitemi di partire da
una riflessione di carattere generale.
Esistono almeno due tipi di domande. Domande che chiedono di avere risposte
che chiamerò meramente formali, e domande che chiedono di avere
risposte che chiamerò esistenziali. Le prime sono risposte che
non provocano in alcun modo la nostra libertà : rispondere alla domanda
quale sia il fiume più lungo del mondo, non cambia per nulla le scelte
della mia libertà , il mio modo di essere libero. E se chi interroga è pur
sempre interessato alla risposta, altrimenti non farebbe la domanda, è in
fondo indifferente al suo contenuto, indifferente a che gli si risponda in
un modo o nell’altro.
La situazione è ben diversa quando si pongono domande per avere risposte
che costituiscono una vera provocazione rivolta alla propria libertà .
Quando Agostino scrive: «ero diventato a me stesso una grande domanda
e una terra di grande sudore», pone una questione che costituisce la
suprema provocazione della sua stessa libertà . Ed Agostino stesso nota
che la libertà è così poco indifferente alla risposta a
quella domanda, che non raramente impedisce alla verità di manifestarsi.
La riflessione agostiniana è importante perché ci aiuta a capire,
ci porta a concludere che esiste una sola vera domanda che interessi ultimamente,
supremamente l’uomo: la domanda su se stesso; la domanda circa la verità ed
il senso del suo esserci. In una parola: circa la sua salvezza.
Quali sono i termini con cui si pone questa domanda? Il contesto in cui Agostino
dice di essere diventato a se stesso una grande domanda è significativo:
la morte di un amico. Non la morte in genere, notate bene, ma di un amico:
di una persona amata. La più radicale contestazione, obiezione alla
domanda di senso è il fatto che possa morire la persona amata. è l’uomo
stesso che a quel punto è messo in questione, e con l’uomo l’intero
universo dell’essere. Rispondere a questa domanda risolvendo tutto
nel caso o nella necessità a me sembra una “scappatoia”.
Volendo stringere al massimo, quale è allora la domanda etica nel suo
nucleo essenziale? è la domanda circa la possibilità dell’uomo
di vivere una vita degna di essere vissuta.
è la domanda formulata in Occidente per la prima volta col massimo rigore
concettuale da Socrate: «non il vivere è da tenere in massimo
conto, ma il vivere bene» [Critone, 48B]. La scriminante radicale non è fra
il vivere e il morire, ma fra il vivere male/ il vivere bene.
I termini essenziali della domanda etica sono due; la domanda etica sussiste
cioè in due problemi.
Il primo: esiste una divaricazione fra “vita degna” e “vita
indegna” di essere vissuta. Se questa divaricazione non esistesse, la
domanda etica sarebbe priva di senso. Al riguardo il problema primo implicato
nella domanda etica è di sapere se questa “diremption” [divaricazione]
ha un fondamento oggettivo oppure se essa è totalmente riconducibile
alla decisione del singolo e/o della società umana. Esistono ragioni
universalmente valide per discriminare una vita degna di essere vissuta da
una vita indegna oppure esistono solo ragioni soggettivamente incomunicabili
o esclusive al gruppo sociale cui si appartiene? In breve: esiste una verità circa
il bene?
Il secondo: l’uomo ha la possibilità di rifiutarsi alla
verità circa il bene, ed esperimenta una misteriosa debolezza quando
intende realizzare nelle sue scelte libere la verità circa il
bene. La salvezza dell’uomo dipende alla fine da questo: salvezza e perdizione
di sé stesso convivono come possibilità in ogni scelta libera.
In maniera semplice e profonda, Ovidio aveva narrato la domanda etica nei suoi
due termini essenziali quando scrisse: «video meliora proboque [=primo
termine/verità sul bene] et deteriora sequor [=secondo termine/condizione
della scelta]».
E le “regole”, si chiederà qualcuno? Rispondo brevemente,
per poter iniziare subito il confronto con l’altro termine, la «scienza».
La regola o norma è la forza che la verità circa il bene mediante
il giudizio della coscienza esercita nei confronti della libertà . Nella
coscienza sperimentiamo la forza normativa della verità .
Ma l’uomo non è una casa senza porte e senza finestre: vive con
altre persone umane. La regola della vita associata è la forza normativa
che esercita la verità circa il bene comune nei confronti della libertà di
ogni associato.
Se così non fosse, se cioè non esistesse nessun [a verità circa
un] bene comune, inevitabilmente il diritto, la norma non sarebbe alla fine
che l’imposizione del più forte al più debole. Se non esiste
la forza della giustizia, saremmo consegnati totalmente alla giustizia
della forza; sarebbe bene ciò che semplicemente risulta storicamente
vincente.
L’uomo ha un solo strumento a sua disposizione per sapere la verità circa
il bene proprio e comune: la sua ragione. E la ricerca razionale, quando trattasi
soprattutto del bene comune, non può non avvenire attraverso il dialogo.
Questa ricerca comune, questo sforzo argomentativo comune è la via attraverso
la quale l’uomo giunge a conoscere la verità circa il bene. «Uno
che rivela una convinzione su una data questione può aiutarmi – o
io lui – a controllare una ragione sulla quale ho basato – oppure
lui ha basato – la mia o sua convinzione, vedendola erroneamente nell’esperienza.
Allora io, o l’altro, o anche entrambi nello stesso tempo, devo rigettare
una convinzione finora professata: e ciò non solo per soddisfare
una esigenza di verità , ma anche per poter restare me stesso.
La controversia sulle ragioni delle convinzioni, quindi, non è mai
una controversia tra rivali. Essa diviene luogo e occasione per scoprire
l’altro come uno che «vuole la stessa cosa e non la vuole» («Idem
velle et nolle») così come io stesso: vuole la conoscenza della
verità e la conferma di se stesso nella sua accettazione. Diviene un
incontro tra alleati nella ricerca comune della verità che supera ugualmente
tutti e due, e che è unica. La controversia sulla verità li lega
poiché aiuta a oltrepassare se stessi nella sua direzione e pertanto
diventare maggiormente se stessi». [T. Styczen, Essere se stessi è trascendere
se stessi in K. Wojtyla, Persona e atto, ed. Rusconi Libri,
Milano, 1999, pag.716]. S. Tommaso scrisse: «ad sciendam veritatem multum
valet videre rationes contrariarum opinionum» [in I de coelo et mundo].
Fuori da questa prospettiva il “dialogo” o diventa un passatempo
ipocrita oppure l’esercizio del potere per imporre il proprio punto di
vista all’altro.
2. Vorrei ora iniziare il confronto con l’altro termine, «scienza»,
avendo detto che cosa intendo per «etica». è possibile un
confronto? A quale livello? Oppure dobbiamo semplicemente limitarci al confronto/scontro
circa la libertà /limiti morali della scienza? Vorrei uscire da questo
restringimento di visuale. Il mio apporto vorrebbe essere precisamente questo.
Perché sia possibile un confronto serio, vero fra «scienza» ed «etica» è necessario
cogliere due significati essenzialmente diversi dello stesso termine “esperienza”.
Il primo si riferisce all’osservazione dei singoli esseri reali e all’induzione: è il
significato con cui viene usato nel vocabolario scientifico.
Ma esiste un secondo significato, più difficile da spiegare. Se qualcuno
dicesse: «non posso parlare dell’amore perché non ne ho
mai avuto esperienza», qui il termine «esperienza» ha un
significato completamente diverso da quello precedente. Non significa semplicemente
conoscenza individuale di un fatto che accostate ad altre analoghe può dare
origine a generalizzazioni. Significa che mi si è svelata/non svelata
[nell’esempio fatto] nella sua essenza una determinata realtà : è l’intuizione
intellettuale dell’essenza di una realtà . La lingua inglese
chiama la prima esperienza: empirical observation, la seconda: such-being
experience; più precisamente la lingua tedesca: daseinserfahrung-soseinserfahrung.
Ora la domanda cardine dalla cui risposta dipende il livello di dignità della
nostra conoscenza, è precisamente se l’uomo è capace di
esperienze del secondo tipo: esperienze che lo arricchiscono di una conoscenza
della realtà diversa da quella raggiungibile colla semplice osservazione.
Non solo, ma un confronto vero colla scienza è possibile solo se si
risponde affermativamente a quella domanda.
Per quale ragione? Ed entro pienamente nel merito. Se la nostra conoscenza
si limitasse esclusivamente al primo tipo di esperienza, e quindi ad un sapere
puramente basato sull’osservazione empirica o sull’induzione, il
sapere scientifico non avrebbe alcun soggetto di interlocuzione, risultando
esso l’unico sapere possibile.
Qualcuno potrebbe dire: “tanto meglio così! La navigazione nel
gran mare della vita è affidata solo alla scienza!”. Il resto
non ha valore veritativo, anche se continua a custodire la sua importanza per
l’uomo.
In realtà però non è così. E nessuna persona umana
può pensare in questo modo, poiché ciascuno di noi testimonia
a se stesso che non ogni scelta della nostra libertà è di uguale
valore; che ogni scelta della nostra libertà è legata da una
verità circa il bene della propria persona e dell’altro, che non è a
nostra disposizione; che è proprio in forza di questo legame costitutivo
fra la libertà e la verità che l’uomo non è determinato
nelle sue scelte dagli oggetti che gli si presentano a caso, ma piuttosto determina
se stesso in accordo/ disaccordo con la verità .
Ma allora alla fine, che rapporto esiste fra scienza ed etica, oppure – che è la
stessa domanda – fra la verità conosciuta dallo scienziato e la
verità conosciuta dall’etico? è un rapporto di integrazione.
La verità è un bene della persona umana; conoscere la realtà è la
risposta ad uno delle esigenze fondamentali della persona umana. Questo bene
rientra in quell’universo dei beni umani mediante i quali la persona
realizza se stessa.
Il bene umano che è la conoscenza scientifica, è un bene in sé e
per sé, non in ragione delle applicazioni o dell’uso che si può fare
eventualmente della conoscenza scientifica. Questo è un punto fondamentale.
Esistono beni strumentali e beni finali. Il valore dei primi
dipende completamente dalla loro utilità , dalla loro capacità di
farti raggiungere un altro bene: vale in quanto e nella misura in cui serve.
Il valore dei secondi è insito nel bene stesso e non ha bisogno di giustificazioni
strumentali. Dei primi si fa uso; dei secondi si gioisce. Tuttavia esistono
dei beni finali che a causa della loro intima ricchezza hanno anche la possibilità di
essere utilizzati. La cupola michelangiolesca è un bene (estetico) in
sé e per sé ma impedisce anche che in S. Pietro piova dentro.
La cupola non venne costruita per impedire che piovesse dentro a S Pietro:
era molto più semplice costruire un tetto normale. Venne costruita perché in
sé e per sé è degna di esserci, per la sua intima bellezza.
La scienza non è un bene strumentale; è un bene in sé e
per sé. è questa la ragione più profonda della
sua libertà . è la connessione costituiva colla verità che
la rende “inutile” e quindi sommamente necessaria. Ma essa può anche
essere utilizzata per altri scopi. Ora questa utilizzazione non rientra più nella
bontà della scienza, ma dovrà essere rapportata alla verità circa
il bene della persona da due punti di vista almeno. Dal punto di vista dello scopo:
ciò che si vuole raggiungere è un bene veramente umano ed umanamente
vero? Dal punto di vista del processo di utilizzazione: il procedimento
mediante cui intendo raggiungere uno scopo è rispettoso della verità circa
il bene della persona? In breve: quanto al suo oggetto, la conoscenza scientifica
non confligge e non può confliggere coll'etica; quanto all'uso delle
sue conoscenze ci può essere conflitto.
Concludo. Penso che ridare, restituire la sua vera dignità al sapere
etico, liberandolo dalla sua riduzione al “sapere delle regole”,
sia oggi assai urgente per riportare dentro al dibattito razionale i
grandi temi della vita – il senso ed il fine ultimo della nostra esistenza,
l’intima fragilità del bene nei confronti del male, la via retta
verso la beatitudine – e non lasciarli più relegati al mero «a
me pare che …». Introdurli come questioni circa la verità del
bene.
è questo un compito urgente, per essere liberati da quel razionalismo
che si è illuso “che le domande circa il senso possano essere
date da un pensiero e da una prassi meramente tecnologiche che hanno le spalle
troppo fragili per sopportare da sole il peso di rispondere a tutti i problemi
autenticamente umani” [Giorgio Israel, in Il Foglio (27
settembre 2005), pag. I]. è compito urgente ricuperare l’intera
capacità della nostra ragione.