“La verità e fecondità del dono”

Presenterò e sottoporrò alla vostra attenzione alcune riflessioni circa la verità e la fecondità del dono che l’uomo e la donna fanno di se stessi nella comunione coniugale.

Parto da una premessa. Parlare di “verità del dono” equivale a parlare di una verità propria dell’atto che le due persone compiono quando si donano l’una all’altra: della verità della loro soggettività in quanto si realizza nel donarsi. Questo modo di affrontare il tema è oggi fortemente contestato in quanto si nega che esista una verità del dono, ma solo la sincerità del medesimo. La domanda quindi è: esiste

una verità circa il dono delle persone [coniugate] così che si possa ragionevolmente dire che “questa” auto-donazione interpersonale è veramente tale? Oppure la verità del dono è semplicemente decisa e costituita dall’intenzione di chi agisce dicendo di donarsi? Come avete inteso, ci troviamo davanti ad un caso particolarmente significativo dal punto di vista teoretico ed importante dal punto di vista pratico della domanda se esista una

verità della soggettività o – il che equivale – una verità circa il bene della persona.

Il tempo a mia disposizione non mi consente di affrontare direttamente e preliminarmente questa problematica. Affronterò però il tema della “verità del dono” tenendo sempre presente quella questione fondamentale.

Ciò detto, dividerò la mia esposizione in due parti, in corrispondenza ai due termini legati al dono: verità e fecondità.

Verità del dono

Partiamo dalla ben nota affermazione antropologica fatta dal Concilio Vaticano II: «l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» [Cost. past. Gaudium et spes 24,3; EV 1/1395].

L’affermazione richiama l’attenzione sui due poli della tensione esistenziale che percorre tutta la biografia della persona umana. Essa è «propter seipsam»: è per se stessa; è in vista di sé stessa; non è per altro.

Si tratta di un’affermazione che denota la costituzione ontologica della persona in primo luogo, ma anche al contempo la sua razionalità e libertà. Grazie ad esse infatti l’uomo è capace di autoporsi e di autopossedersi, cioè è capace  di esistere e di operare «per se stesso». è capace di una certa auto-teleologia in forza della quale non solo si  propone dei fini, ma anche pone se stesso come fine. è a causa di

tutto questo che “l’essere in se stesso” che definisce il soggetto, la sostanza, raggiunge nella persona il suo grado insuperabile di essere: non si può essere più che persona.

Il secondo polo della tensione esistenziale è denotato dal fatto che l’uomo «non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé».

Il testo fa riferimento ad un’esperienza basilare, forse la più profonda, del vissuto umano, descritta dal testo conciliare come «plene seipsum invenire». L’uomo è lontano da sé? L’uomo può perdere e ritrovare se stesso? Sicuramente abbiamo a che fare con quella ricerca della pienezza di essere che costituisce il dinamismo insito in ogni movimento intenzionale umano. è la ricerca di se stesso nel senso di raggiungere la pienezza dell’essere.

Questa ricerca raggiunge il suo compimento nel «dono sincero di sé». La paradossalità consiste nel fatto che l’uomo «Ã¨ per se stesso» quando «dona se stesso»; consiste nel fatto che l’uomo raggiunge pienamente la sua propria modalità di esistere – l’«essere per se stesso» – quando «dona se stesso». Il dono di sé è la più perfetta realizzazione delle capacità della

persona, l’attuazione eminente della sua intrinseca potenzialità.

Si può spezzare questa tensione polare in due modi opposti. O realizzando se stesso nell’affermazione del proprio bene prescindendo dal bene dell’altro ed anche contro il bene dell’altro. è come una sorta di “curvatura su se stesso”. Per usare il linguaggio paolino l’ “essere per se stessi” è realizzato nel “vivere per se stessi”. Oppure affermando l’altro, ma nella distruzione della propria soggettività. è l’egoismo

o l’alienazione che distrugge la tensione polare che attraversa la nostra esistenza.

Questa “tensione polare” la troviamo nell’attività della conoscenza. Anzi è questa tensione polare insita nella conoscenza della verità la base che rende possibile il paradosso dell’amore: ritrovare se stesso nel dono di se stesso.

L’atto del conoscere – più precisamente il giudizio – è atto del soggetto. è il soggetto che consente alla verità conosciuta, cioè alla realtà che si mostra mediante l’atto del soggetto. In quell’atto il soggetto chiama se stesso ad andare oltre se stesso verso la realtà conosciuta. Il soggetto compie l’atto della conoscenza come atto, ma non ne costituisce la verità. Quando si nega questa struttura del

conoscere, che è l’apertura dell’io alla realtà, l’amore come ritrovamento di se stesso nel dono di sé stesso è non solo impensabile, ma è impraticabile. Il dono di sé è vero quando l’io vive questa apertura alla realtà.

Questa capacità della persona di trascendersi mediante la conoscenza e la libertà è uno dei titoli più splendidi della dignità unica della persona, poiché ne rivela  l’originalità dell’essere. Mentre infatti chi non è capace  di auto-trascendenza nella forma propria della conoscenza e della libertà nega semplicemente se stesso, al contrario la persona auto-trascendendosi diventa in un certo qual modo ogni cosa;

meglio, partecipa realmente nella sua conoscenza e nella sua libertà al tutto dell’essere ed a tutti gli enti. «Per quanto sia reale la sua autodeterminazione autonoma e libera e per quanto essa sia dunque sui juris, tuttavia il senso della conoscenza umana, del giudicare umano e anche della libertà umana si disvela solo quando viene compreso come partecipazione trascendente alla vera natura delle cose e come un libero conformarsi ad essa» [J. Seifert, Essere

e persona, Vita e Pensiero ed., Milano 1989, pag. 354].

è in questo che si gioca il destino della persona e si comprende come l’essere della persona – come disse G. Marcel – è «una conquista e non un possesso».

La persona può rinunciare a trascendersi nella conoscenza e nella libertà: può rifiutarsi alla verità e al bene. Può rifiutarsi di “introdurre se stessa nella realtà”: vivere nel sogno. In una parola: può perdere se stessa. Oppure può esercitare la sua capacità di autotrascendersi nella conoscenza e nel bene rispondendo adeguatamente alla realtà conosciuta e riconosciuta. Ed in questo la  persona afferma

e vuole se stessa in modo eminente: ritrova se stessa. «la volontà che aderisce agli esseri secondo il loro ordine oggettivo, partecipa dell’entità a cui aderisce così pienamente come l’ordine oggettivo esige e però mirabilmente si nobilita» [A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, CN ed., Roma 1981, pag. 472: tutto il cap. X del libro IV è da leggere].

L’universo dell’essere è come diviso in due regioni: la regione dell’impersonale e la regione delle persone. Fra i due esiste una differenza essenziale. Quando la persona trascende se stessa [nella conoscenza e nella libertà] a riguardo di un’altra persona? Nel grado massimo quando l’altro è riconosciuto degno di essere amato; quando l’amore si realizza nel dono di sé all’altro.

Provo a raccogliere in sintesi quanto sono andato dicendo finora.

La capacità di auto-possedersi, di auto-determinarsi e quindi di auto-realizzarsi non possono essere adeguatamente comprese se non si comprende la capacità di rispondere adeguatamente alla realtà.

Attraverso questa risposta la persona realizza nel modo vero e giusto il suo auto-possesso, il suo auto-determinarsi e quindi la sua autorealizzazione è più perfetta.

La capacità di auto-trascendersi raggiunge il suo vertice nell’amore e l’amore nel dono di sé: unica risposta pienamente adeguata alla realtà che è la persona.

Attraverso questa risposta trascendente alle altre persone, la persona raggiunge lo stadio più alto del suo auto-possesso, del suo autodeterminarsi, del suo autorealizzarsi. Infatti solo perché ed in quanto la persona possiede se stessa, può donarsi: nessuno dona ciò che non possiede; e reciprocamente nel dono di sé, mostra e realizza un’autopossesso ed un autodeterminarsi sublime. In una parola: nel dono di sé è diventata pienamente se stessa. «Nella

vita umana il paradosso è che per avere la libertà bisogna perderla completamente, la libertà vera deve essere esercitata con amore essenziale. L’amore essenziale è il donarsi essenziale e il donarsi essenziale è il perdersi essenziale: questo è il fondo del  fondamento» [C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme ed., Casale Monferrato 2000, pag. 297, n° 1652].

La verità del dono coincide colla verità della persona: nel dono la persona è se stessa.

Fecondità del dono

La trattazione di questo secondo punto presuppone alcune acquisizioni teoretiche sia antropologiche sia etiche che devo limitarmi semplicemente ad enunciare.

– La struttura della persona come esposta sopra, supposta la rivelazione cristiana, trova fondamentalmente tre forme espressive-realizzative: la forma coniugale, la forma verginale, la forma pastorale.

– La forma coniugale trova la sua espressione significativamente più alta nel dono reciproco degli sposi che li rende «una caro»: è l’atto coniugale per eminenza, l’atto che è proprio ed esclusivo degli sposi.

– Suppongo la dottrina cattolica esposta in Humanae Vitae ed approfondita nel Magistero di Giovanni Paolo II.

Ed entro in argomento partendo da una profonda affermazione dell’Istr. Donum vitae [Intr. 4]: «Rispetto alla trasmissione delle altre forme di vita nell’universo, la trasmissione della vita umana ha una sua originalità che deriva dalla originalità della persona umana».

Il testo fa due affermazioni: la trasmissione della vita umana non è come la trasmissione della vita non umana, è dotata di una sua originalità; questa originalità deriva dall’originalità della persona umana. In una parola: l’originalità della persona determina l’originalità della trasmissione della vita da persona a persona. La persona della cui originalità si parla è sia la persona che genera [trasmette la

vita], sia la persona generata [cui la vita è trasmessa]: l’originalità ha due cespiti per così dire.

Portando la nostra attenzione sulla persona che genera, chiediamoci: in che cosa consiste l’originalità della persona nell’universo dell’essere? Ponendosi dentro alla tradizione metafisica classica, J. Seifert ha dimostrato che il proprium della persona nell’universo dell’essere è che essa  realizza in grado sommo l’essere proprio della sostanza. La persona sussiste [come ogni sostanza] in grado eminente. Eminenza sia a livello entitativo sia

a livello operativo [cfr. op. cit. Essere e persona: è la tesi dell’opera]. è in se stessa in quanto sostanza spirituale che raggiunge nell’atto libero il grado sommo e di auto-possesso e di auto-determinazione, e quindi di autorealizzazione  perfetta. Ma come si è visto, auto-possesso/auto-determinazione/auto-realizzazione si compiono in grado sommo nel dono di sé da persona a persona.

L’originalità della persona consiste supremamente nella sua capacità di donarsi: solo la persona è capace di donarsi; è capace di amare.

In che senso allora questa originalità della persona determina l’originalità della trasmissione della vita umana?

Nel senso che l’essere l’atto sessuale coniugale l’atto che pone le condizioni del concepimento di una nuova persona umana, non è un semplice dato di fatto. La connessione fra coniugalità e genitorialità, e quindi fra unione sessuale coniugale e fertilità non è un mero dato naturale, ma è dotata di un suo intrinseco significato.

L’unione sessuale coniugale quando è potenzialmente feconda non perde la sua intima verità e bontà, che consiste nell’essere dono reciproco di se stessi da parte dei coniugi: nessuno dei due può essere “usato” in vista della fecondità. La nascita del figlio può essere attesa nell’unico modo in cui i due coniugi possono unirsi: nella modalità del dono. La trasmissione della vita nelle altre specie viventi è solamente

un’azione della natura, comandata dalla natura. La modalità di questa trasmissione deriva dalla costituzione dell’individuo animale privo di autopossesso e di autodeterminazione.

Ma la cosa va considerata anche dal punto di vista della persona che  è generata, dal punto di vista del figlio in quanto dotato della stessa dignità di persona. La persona può essere voluta solo “per se stessa” e quando le condizioni del suo concepimento sono poste da un’attività tecnica il figlio non è obiettivamente voluto “per se stesso”, ma esclusivamente in quanto soddisfa ad un desiderio. è in vista di un altro,

non “per se stesso” che il figlio è voluto. Egli viene privato dell’intima verità di essere dono, ma viene considerato come “qualcosa” a cui si ha diritto. La dittatura del desiderio priva il figlio della sua dignità di persona, dal momento che il desiderio non può volere l’altro “per se stesso”. La logica del desiderio distrugge la logica del dono.

Profondamente Giovanni Paolo II ha scritto: «Il fondamento su cui si basa la dottrina della Chiesa circa la paternità e maternità responsabili è quanto mai ampio e solido. Il Concilio lo indica anzitutto nell’insegnamento sull’uomo, quando afferma che egli «in terra è la sola creatura che Dio abbia voluta per se stessa» e che non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» [Lett. Ap. Gratissimun

sane 12,8; EV 14/221].

Conclusione

La missione ecclesiale dell’Istituto si conferma sempre maggiormente nell’originaria intuizione di Giovanni Paolo II, che lo ha voluto.

Si conferma: solo la ricostruzione di un’antropologia adeguata potrà salvare l’istituzione matrimoniale da una demolizione quale non aveva mai conosciuto. Non è rincorrendo  l’opinione delle maggioranze mediante approcci casuistici che si risponde adeguatamente alle devastazioni che la menzogna circa l’uomo sta compiendo nell’uomo stesso. La vera “compassione” verso l’uomo derubato della sua originalità di persona è ricondurlo

a se stesso, alla sua verità: non è offrirgli pensieri che sono solo profilattici contro un’infezione mortale per la sua regale dignità.

 

 

12/05/2006
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