Messa a Pianaccio per l’80° della morte del Beato don Giovanni Fornasini

Sento una gioia profonda nel celebrare a Pianaccio il martire che qui è nato, il nostro beato Giovanni Fornasini, nel giorno in cui ricordiamo il Patrono, San Giacomo, il primo apostolo a dare la vita per il Vangelo. Ogni volta che vengo a Pianaccio resto colpito dal verde e da come questa bellezza contorna la piccola città degli uomini e si unisce al cielo. Qui terra e cielo sono più vicini. L’amore di Dio riflette quello che non finisce nella nostra vicenda umana, che non è destinata a finire sotto la terra che non è mai lieve, ma ad essere portata in cielo, nella casa di amore che sperimentiamo intorno alla mensa della sua Parola e del suo Corpo.

Dallo Stato delle Anime del 1904 si apprende che a Pianaccio era rimasta solo la famiglia di Luigi, composta da lui, dalla moglie Caterina e dai tre figli superstiti, Oreste, Anselmo e Adone. Luigi e i figli vengono tutti definiti operai, probabilmente erano braccianti a giornata o taglialegna. Il 4 luglio 1908 Angelo Anselmo sposò Maria Guccini di Angelo e Caterina Franci, di Pianaccio, mentre il fratello Adone il 24 ottobre 1911 sposò Zelinda Guccini, sorella di Maria. Da Angelo Anselmo e Maria nacquero Luigi Domenico Giovanni il 2 giugno 1912, Giovanni Remo il 23 febbraio 1915, il futuro don Giovanni.

Ci prepariamo per l’ottantesimo anniversario dei massacri di tante comunità e di tanti preti che si sono pensati insieme alle persone, con loro e per loro in questo territorio. Questa è la Chiesa, questo è l’amore cristiano, non dichiarato, non esibito e difeso non con le stesse armi del potere e del male ma con la testimonianza mite e indifesa del dono. E la memoria di questo dolore immenso, che non possiamo misurare, ci aiuta a non restare distanti da quello che succede oggi in tante parti del mondo, dove vediamo con la stessa efferatezza spegnere la vita di migliaia di persone. Anzi, ci ammonisce a non far finta, a non girarsi dall’altra parte e a seguire la testimonianza di amore di cristiani come don Giovanni, certi che la luce e la speranza aiutano chi è nella notte della pandemia.

I discepoli non vivono per loro stessi. Quello che hanno resta con loro se lo condividono. L’amore non è proprietà, è dono e solo così diventa nostro: quando possiamo dire che è con altri. Questo è l’amore cristiano, quello che mostra la grandezza di essere a immagine di Dio, la grandezza dell’uomo, quello che non finisce, da cui nessuno ci può mai separare. Ma anche un amore così rivela i surrogati, le strumentalizzazioni. Il segreto dell’amore è il dono. Solo donando amore capiamo l’amore. E dono è tutt’altro che vivere senza legami, anzi è legarsi, ma senza possedere, senza catturare, senza ridurre all’io, ma creando il noi.

Siamo posti anche noi, come sempre avviene a chi segue Gesù, davanti alla folla. I discepoli non si amano tra loro, non vivono altrove, protetti, sicuri, e da lontano giudicano gli altri. I cristiani sono insieme per comunicare amore. Gesù non distingue la folla, ebrei o stranieri, buoni o cattivi, uomini o donne, familiari e non. Sono tutti suoi, tutti sono il prossimo da amare, senza un numero massimo. Indefiniti nel numero ma molto definiti nell’amore. Gesù invita a far sedere, come si mangia in famiglia: vuole rendere il mondo, così informe e minaccioso, quella realtà cristiana e universale che è quella di Fratelli tutti. Per noi questa inizia già oggi, tanto che non possiamo avere nessun nemico, qualcuno da allontanare. L’invito del Vangelo è la gratuità. L’amore è gratuito. Guai quando ha qualche corrispettivo, quando iniziano i confronti, i risparmi, le convenienze, gli interessi! Vuol dire che è diventato un’altra cosa o si rivela che non è amore. Il perdono, che ci permette di non smettere di imparare l’amore da Dio, è sempre gratuito. L’amore di Gesù ci rende consapevoli che possiamo compiere noi, fragili e impari come siamo, i gesti piccoli che realizzano le cose grandi, immense, come resistere alla pandemia di male che è la guerra con i suoi frutti di cattiveria, odio, rancore, vendetta, fine.

I cinque pani e i due pesci sono il poco che siamo e abbiamo. Se abbiamo Gesù abbiamo tutto quello che serve! Don Giovanni Fornasini non si è mai creduto importante, ma ha sempre donato tutto come i piccoli del Vangelo che capiscono quello che resta nascosto a tanti sapienti e intelligenti. Don Giovanni è un grande nell’amore e ci mostra, con mitezza e tanta attrazione, la via del Vangelo per restare umani, per non piegarsi al male, per non cercare prudenze sospette per salvare se stessi, ma fare come avrebbe fatto Gesù prima di morire. Don Giuseppe Zaccanti annota l’ultimo incontro con Fornasini il 5 settembre 1944, alla celebrazione di un ufficio funebre presso la parrocchia di Vedegheto. Ricorda di aver ascoltato la sua confessione e di avergli raccomandato tanta prudenza. Don Giovanni reagisce domandando: «Cosa farebbe Gesù al posto mio?» e citò dalla lettera agli Ebrei «Sine sanguinis effusione non fit remissio (Senza effusione del sangue non c’è remissione dei peccati)». Un ragazzo non credente mi ha chiesto se per amare sia necessario credere. Ho risposto no, che ci sono tanti che credono in Dio e non amano e tanti che non credono in Dio e sono esempi di amore e altruismo. Che termine bello altruismo, l’altro e non solo l’idolo dell’io.

Ma essere amici di Gesù ci è indispensabile per amare, perché Lui ci ama e ci dona la forza per farlo. Conviene credere in Gesù per essere gratuiti e per esserlo con tutti. Se vuoi una vita tranquilla e piena di muri e limiti allora non conviene. Se vuoi amare, diventa amico di Gesù. I cinque pani e i due pesci sono oggi don Giovanni, non a caso «l’angelo di Marzabotto». Che titolo straordinario! Angelo perché gratuito, correva da una parte all’altra per donare parole, sacramenti, pane, sorriso, preghiera e tutto il suo impegno pastorale, senza risparmio. Quanti angeli! Mi ha colpito la storia di quella donna di Grizzana Morandi che ottant’anni fa accolse un soldato sud africano moribondo nella sua casa e lo curò, lei vedova e con tre bambini e una in pancia. I figli del soldato e della donna, adesso ottantenne, si sono incontrati l’altro giorno. Quella donna è stata un angelo e senza di lei sarebbe tutto finito.

Di don Giovanni hanno scritto: “La canonica di Sperticano divenne antenata degli odierni centri d’ascolto della Caritas, dove si radunavano beni per il soccorso di chi si trovava nell’indigenza più totale, luogo sempre aperto ad ospitare chi si trovasse in difficoltà estrema. L’assistenza materiale non fece dimenticare l’impegno per la cultura e l’istruzione, che spinse don Fornasini a promuovere la scuola d’avviamento”. Qualcuno? Tutti. Don Gherardi riporta la testimonianza di un prete che lo incontrò quando egli passò a salutare al seminario di Villa Revedin, in occasione della sua discesa a Bologna nei giorni delle stragi, in cui il giovane prete affermò: «Io sono parroco di tutti, nessuno escluso. Anche i partigiani sono dei battezzati come i miei parrocchiani; se loro non scendono, io salgo». Perché era così? Perché cristiano e perché prete, e aveva scelto una vita di fraternità, perché per salire serve la cordata, fraterna, e vivere ogni giorno la prima S. Messa. Perché l’anima “non deve invecchiare”, per scegliere “delicatezza, comprensione; non congelare la carità, superare la scorza, reagire positivamente cercando quella bontà inesplosa, non raffreddare la carità”.

Ecco come si genera l’uomo che verrà ma che inizia oggi dalle nostre scelte, dal nostro amore, dal prendere il poco che abbiamo e semplicemente donarlo. Fino alla fine. Fino a spendere tutto, anche l’ultimo pane, accettando di andare a benedire un morto che non sapeva chi fosse. Avrà avuto paura, ma l’amore era più forte e l’amore per Gesù l’ha vinta.

Nell’estate del 1937, andando a Lourdes don Giovanni, non ancora prete, scrisse quello che ha realizzato con tutta la sua breve ma intensissima vita: “La Vergine per amore è discesa a Lourdes. Le rose le ha ai suoi piedi per indicarci che la carità ha guidato i suoi passi. È discesa per tutti; accoglie tutti, nazionali e stranieri, ricchi e poveri, sani e malati, giusti e peccatori. Tale deve essere la carità verso il prossimo, di noi chiamati al sacerdozio che è ministero di amore e sacrificio. Le qualità di questo amore possiamo vederle simboleggiate nella fontana della grotta. Zampilla dalla viva roccia; così la carità deve sgorgare dalla salda pietra della fede, altrimenti avremmo la vana e volubile filantropia del secolo. La fontana zampilla da luogo nascosto; la carità deve scaturire da cuore umile, che non cerca il rumore del mondo. La fontana è accessibile a tutti, senza eccezione; la carità la si deve usare con tutti, anche con i nemici. La fontana, una volta scaturita, non cessò mai: la carità non deve illanguidirsi, ma continuare sempre nelle opere di misericordia. L’acqua della fontana è limpida e pura; così la carità non deve tollerare miscugli, ma deve aver per fine il puro amore di Dio”.

Questa è la Chiesa e questa Chiesa ci è affidata in tanta sofferenza per curarla. Ci agitano le domande: come è possibile arrivare a tanta disumanità? Come impedire che la lunga e sistematica preparazione ideologica e pratica di divisione e di colpevole ignoranza diventi abitudine alla violenza, riarmo, paura che giustifica l’odio? Dobbiamo dire che non abbiamo capito! Abbiamo dimenticato! Dobbiamo ricordare e rendere testimonianza di quello che succede per contrastare un «sistema di male» finché ci sia tempo. E la risposta è l’impegno di essere cristiani come don Fornasini e come San Giacomo, primo apostolo a donare la vita. Solo così l’amore vince il male e il Vangelo di Cristo diventa nutrimento di amore e speranza per tutti.

Chiesa di Pianaccio
28/07/2024
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