“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia” (Gv 1,16). Così abbiamo ascoltato nella celebrazione del Natale, nuovo inizio, ripartenza personale e per le nostre comunità. È un Natale che ci ha introdotto al Giubileo della speranza e questo interroga e coinvolge personalmente ognuno di noi e il nostro ministero di diaconi. Tutti siamo chiamati a rendere ragione della speranza che è in noi e ci domandiamo oggi cosa ci chiede questo. Abbiamo ricevuto grazia su grazia e davvero dovremmo accorgercene, ricordarcele, contemplarle, perché la grazia del Signore è sempre la stessa ma si trasforma. Qualche volta siamo noi che non sappiamo riconoscerla, altre volte la diamo per scontata, a volte ce ne impadroniamo e dimentichiamo che è solo per grazia che il Signore ci ha chiamato, mentre noi la inquiniamo con il senso del possesso e del ruolo. Il pieno coinvolgimento personale, chiesto ad ognuno, si deforma quando pensiamo di meritarla o che sia qualcosa di personale, dimenticando che è nostra proprio se e perché unita alla comunione.
Ogni ministero è ordinato per la comunione e si modella su questa, si affina con il comune sentire, matura nella sinodalità pratica del camminare insieme, del pensarsi insieme. Non misuriamo noi i frutti e l’utilità perché il servizio è sempre efficace e siamo liberi dalle categorie mondane. Nella celebrazione della liturgia partecipiamo tutti, ma non perché facciamo tutti qualcosa di attivo, ma perché è tutta nostra e la nostra partecipazione è sempre personale anche se non ha nessun protagonismo esteriore di ruolo. È l’intero popolo dei battezzati che partecipa e celebra l’eucarestia. Il ministero richiede sempre un atteggiamento spirituale che ci chiede di fare quello che il Signore indica e che è utile alla comunione. Per questo dobbiamo fare nostre le preoccupazioni comuni, confrontarsi, non parlare sopra, essere inquieti, cercare quello che ancora non c’è ma che è necessario, capire le domande della folla anche quando questa non chiede nulla esplicitamente ma ha una richiesta che si comprende solo con la compassione.
Gesù la descrive composta da pecore stanche e sfinite perché “senza pastore”. Noi stessi dobbiamo dare da mangiare a tutti anche se non abbiamo nulla, anzi forse proprio perché abbiamo solo cinque pani e due pesci. La risposta non è nel protagonismo dei discepoli ma nella loro disponibilità e nel fare quello che Gesù gli indica: “Voi stessi date loro da mangiare!”. La sinodalità troverà delle forme possibili, solide e adeguate e dovrà indicare le priorità. Perché questo avvenga è necessario che ci pensiamo insieme, ascoltiamo la Parola e non smettiamo di guardare la folla con il cuore e gli occhi di Gesù per capirne la sofferenza. Anche il diacono non capisce il suo servizio senza la comunione e la compassione. E non dimentichiamoci che la folla, le messi abbondanti che già biondeggiano, la vigna dove siamo mandati a lavorare, è il mondo. Non stanchiamoci di interrogarci su quei segni dei tempi che ci chiedono, come una lectio, di scrutarli e capirli, per distinguere le domande che ci pongono e identificare risposte che siano all’altezza. Come occorre l’esegesi dei segni dei tempi, testo che richiede sempre tanta compassione ed anche una lettura e una conoscenza con tutti gli strumenti necessari. Gaudium et spes sono molto legati. La speranza porta la gioia e un atteggiamento gioioso forte ci aiuta a difendere la speranza.
Non smettiamo, insomma, di interrogarci su come “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, le capiamo e come siano le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” perché “nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 2). “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico” (GS 4).
La speranza si misura con la realtà, perché non è un atteggiamento incosciente, anzi è proprio frutto di una consapevolezza profonda e interiore dei tanti problemi. Iniziamo a parlare di speranza, contempliamo la speranza di Dio per il mondo, per ognuno di noi, e confrontiamoci con la morte, con la violenza, con il pregiudizio e l’intolleranza. Siamo persone di speranza perché Dio l’ha portata per dare risposta alla domanda che accompagna la vita di ognuno che a volte diventa disperazione. Noi non siamo deformati e traditi dalla felicità individuale, quella che poi quando arrivano i problemi scappa, alza i muri, pensando noi così di stare bene. La felicità individuale assorbe tantissime energie e risorse, e in realtà indebolisce i rapporti, ci rende possessivi, consumatori, produce tante dipendenze e, quindi solitudine. L’amore per il Signore ci chiede di essere Suoi fino alla fine. Il segreto di Santo Stefano è sempre solo l’amore. Stefano si era plasmato sull’imitazione di Cristo. Il martire non è il coraggioso, ma l’amato amante. La gioia, la beatitudine è nel dare, nella gratuità dell’amore, fino all’estremo. Le indicazioni di Gesù possono essere accolte con sconcerto e per questo rese troppo simboliche. “Non preoccupatevi di come o di che cosa direte. Sarà lo Spirito a parlare”.
Ecco perché essere pieni dello Spirito. La perseveranza salverà. C’è un legame stretto tra questa e la speranza, che è tutt’altro che debole, accomodante, facile. L’imitazione matura nel cuore. “In questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte. Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede. Nella società di oggi, l’essere umano rischia di smarrire il centro, il centro di sé stesso” (DN 9). “Occorre affermare che abbiamo un cuore, che il nostro cuore coesiste con gli altri cuori che lo aiutano ad essere un tu” (DN 12). “Si potrebbe dire che, in ultima analisi, io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone. (DN 12). “Una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo: si manterrebbero in piedi solo due monadi che si accostano ma non si legano veramente. L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità” (DN 17). “Vediamo così come nel cuore di ogni persona si produca questa paradossale connessione tra la valorizzazione di sé e l’apertura agli altri, tra l’incontro personalissimo con se stessi e il dono di sé agli altri. Si diventa se stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità” (DN 18).
Papa Francesco al termine del Assemblea generale del Sinodo, adottando il testo approvato dall’assemblea e insistendo sulla dimensione spirituale della discussione del Sinodo, ha letto un colloquio con il Signore di Madeleine Delbrel, mistica e sociale: “Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero, di conoscerti con aria da professore, di raggiungerti con regole sportive, di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato … Facci vivere la nostra vita, non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato, non come una partita dove tutto è difficile, non come un teorema che ci rompa il capo, ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si rinnovella, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica che riempie l’universo di amore”.
Se viviamo con questo dolce abbandono al cuore di Gesù, che ci apre il nostro e ci fa capir le domande profonde delle persone, sapremo ripensare il nostro servizio diaconale perché aiuti la nostra Madre Chiesa a generare la presenza di Cristo nella vita di tanti.