messa crismale

Bologna, Cattedrale

Questo rito solenne e suggestivo presenta in anticipo alla nostra contemplazione l’esito dell’impresa redentrice del Figlio di Dio; di quell’impresa cruenta e splendente di gloria che a partire da questa sera rievocheremo e rivivremo nel grande Triduo Pasquale. Adesso, prima ancora della meditazione sulla vicenda salvifica – che a partire da questa sera svolgeremo nei suoi vari momenti di passione, di morte, di risurrezione – è già offerto alla nostra commozione e al nostro stupore il frutto mirabile della lotta e della vittoria del Signore Gesù.

Il frutto della lotta e della vittoria del Signore è “il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato” (1 Pt 2,9), come dice splendidamente l’apostolo Pietro nella sua prima lettera.

Così – pur ripensando nei prossimi giorni ai temi drammatici del tradimento e dell’amore sino alla fine con cui siamo stati amati (che connotano l’Ultima Cena); al tema dell’obbedienza di Cristo al Padre fino all’effusione del sangue sull’altura del Golgota; al tema del silenzio tragico che nella giornata del Sabato Santo incombe sul sepolcro – non cesserà mai di fiorire dai nostri cuori, anche nella pensosità dei riti di questa settimana, il canto di lode e riconoscenza che nella seconda lettura ci è suggerito dal libro dell’Apocalisse: “A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (Ap 1,5-6).

Ciò che in questa celebrazione ci viene coraggiosamente proposto, è in una parola di guardare dall’alto alla realtà della Chiesa, la Sposa tratta dal fianco lacerato del Nuovo Adamo e chiamata a diventare in lui la “madre di tutti i nuovi viventi” (cf Gen 3,20). Dall’alto.

Se guardiamo la Chiesa “dall’alto”, essa ci appare come un mistero oggettivo di santità: la stessa unzione consacratoria per mezzo dello Spirito, che ha investito il Figlio di Maria fin dalla sua concezione, si estende al Nuovo Israele; cioè all’umanità che si lascia raggiungere e trasformare dalla grazia proveniente dal sacrificio unico e pienamente sufficiente del Sacerdote eterno che è entrato nel santuario celeste.

L’olio di letizia con cui Dio “l’ha consacrato a preferenza dei suoi eguali” (cf Sal 45,8) – cioè primariamente e direttamente lui solo entro l’intera famiglia umana – scende adesso dal capo sulle sue membra, fino a toccare “l’orlo della sua veste” (cf Sal 132,2). Le sue membra siamo noi: sono tutti coloro che nel battesimo, nella cresima e in tutti gli altri sacramenti si connettono e si conformano sempre più a lui; l’”orlo della sua veste” è invece ogni uomo – quale che sia la sua condizione etnica, culturale, religiosa – perché nessun uomo (per quanto possa sembrare estraneo e lontano) è totalmente disgiunto da lui e sottratto alla sua universale potenza purificatrice e rinnovatrice.

Dall’alto gli angeli guardano ammirati al prodigio della Chiesa; e proprio in virtù di questa visione riescono a misurare tutta la ricchezza dell’intelligenza e della fantasia del Creatore. E’ la lettera agli Efesini a comunicarci questa informazione inattesa, quando ci rivela che solo “adesso nel cielo, per mezzo della Chiesa, è manifestata ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio” (cf Ef 3,10). Solo adesso, che possono contemplare la realtà stupenda della Chiesa, gli angeli si rendono dunque conto di quale sapiente ed esuberante artista sia l’Autore del creato.

E’ mai possibile allora che ci sia qualcuno – tra i cristiani e perfino tra i teologi – che invece di condividere (“socia exultatione”, “uniti in eterna esultanza”) la visuale delle creature celesti, si assimili agli osservatori profani, e valuti la Chiesa, la sua realtà, la sua storia, con i loro medesimi criteri inadeguati? Vale a dire, coi criteri inevitabilmente propri di chi non è ancora sufficientemente illuminato dallo Spirito.

Sarà bene ricordare l’apostolo Paolo che ammonisce: “L’uomo naturale – l’uomo ‘psichico’, vale a dire l’uomo lasciato alle sole sue forze conoscitive – non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,14). Tanto meno quindi l’uomo “psichico” potrà capire e giudicare la Chiesa, che vive appunto in virtù dell’effusione pentecostale.

Da tali prospettive mondane non possono che nascere delle ecclesiologie inutili e miserabili, le quali probabilmente suscitano l’ironia divertita e misericordiosa dei Cherubini.

In quest’ora di grazia noi sentiamo tutta la fortuna di vivere nella “casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità” (1 Tm 3,15); e spontaneamente facciamo nostre le parole dell’antico salmo:

“Una cosa ho chiesto al Signore,

questa sola io cerco:

abitare nella casa del Signore

tutti i giorni della mia vita,

per gustare la dolcezza del Signore

e ammirare il suo santuario” (Sal 27,4).

“Gustare la dolcezza del Signore”. La “dolcezza del Signore – commenta sant’Ambrogio – sta nella Chiesa, perché la Chiesa è l’immagine della realtà celeste” (De interpellatione David IV,2,9: “Delectatio Domini in Ecclesia est. Ecclesia est imago caelestium”).

Soprattutto noi, cari presbiteri, in un momento come questo dobbiamo renderci conto che davvero per noi “la sorte è caduta in luoghi deliziosi, ed è magnifica la nostra eredità” (cf Sal 16,6).

Noi, tra tutte le membra del “corpo del Signore”, per l’ordinazione ricevuta siamo congiunti oggettivamente al nostro Capo e Signore in modo così stretto, da poter far nostra la sua donazione d’amore alla Chiesa, il cui servizio è il senso e lo scopo dell’intera nostra esistenza. E dunque partecipiamo alla sua stessa prerogativa sponsale, perché vale anche per noi il principio enunciato da Gesù: “Colui che possiede la sposa è lo sposo” (Gv 3,29).

Ben consapevoli allora della nostra altissima vocazione, con animo lieto e riconoscente, rinnoviamo adesso le promesse della nostra ordinazione e riconfermiamo i nostri impegni sacerdotali.

20/04/2000
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