messa in cena domini

Bologna, Cattedrale

“Fate questo in memoria di me”. Vale a dire: “Vi prego, non dimenticatemi”.

Come non sentirsi toccati e quasi trafitti nel cuore da questa implorazione, che il Figlio di Dio ci rivolge nell’imminenza di versare il suo sangue per noi e per tutti?

In un momento di eccezionale rilevanza del suo cammino salvifico – la sera dell’ultima cena, l’inizio della sua tremenda sofferenza, “l’ora del suo passaggio da questo mondo al Padre” (cf Gv 13,1) – egli fa appello alla nostra capacità di ricordare: “Fate questo in memoria di me”.

Ma come potremo dimenticarti, Signore Gesù? Come potremo scordare che, dopo un’esistenza tutta segnata dall’amore per noi, tu “ci hai amato sino alla fine” (ib.)?

Questo è il giorno in cui, ripensando a come noi siamo facili a dissiparci e a lasciare che la nostra mente divaghi così spesso e così a lungo lontana dal pensiero di Cristo, ci diventa naturale e doveroso arrossire dei troppi nostri giorni ingrati e distratti.

La Chiesa, però, per fortuna non si dimentica; e – riascoltando, non solo nella liturgia del Giovedì Santo ma in ogni preghiera eucaristica, questa suprema parola del suo Fondatore – riscopre continuamente, per così dire, la sua identità e la sua natura più incontestabile e vera. La Chiesa è, primariamente ed essenzialmente, una “memoria”: la memoria indefettibile del suo Salvatore; una memoria che, restando sempre viva e appassionata, risale da due millenni lungo la storia dispersa e sbadata degli uomini.

“Fate questo in memoria di me”. La Chiesa riesce a non dimenticarsi mai dello Sposo, che “l’ha amata e ha dato se stesso per lei” (cf Ef 5,25), appunto perché non tralascia mai di “fare questo”: l’Eucaristia – nella quale tutta la vita ecclesiale si alimenta e si compendia – è, avanti ogni altro aspetto, una provvidenziale “memoria di Cristo”; una memoria così intensa e soprannaturalmente efficace da ripresentare nella realtà e mettere nelle nostre mani la persona adorabile dell’Unigenito del Padre (divenuto per riscattarci il figlio unico di Maria); e anzi da consentirci di offrire, con lui, lo stesso sacrificio da cui siamo stati redenti.

E’ una “memoria oggettiva”, che si istituisce e si avvera per se stessa, quale che sia la nostra disattenzione; noi però dobbiamo “soggettivizzarla”, cioè tenerla il più possibile desta e consapevole dentro di noi, perché partecipare a una messa senza pensare esplicitamente a Cristo significa contraddire l’intrinseca natura del rito.

Tale memoria non è tanto il richiamo a una idea, a una teoria, a una dottrina: è il ricollocarci intenzionalmente al cospetto di una persona, che noi con gli occhi della fede percepiamo presente e vicina; di una persona che conta per noi, di una persona amata, di una persona che è il centro e il senso della nostra vita.

Una riflessione come questa illumina tutti i nostri giorni e ce li fa comprendere nella loro verità. Poiché l’Eucaristia è il vertice, il “tipo”, la norma dell’intera esistenza cristiana, l’intera esistenza cristiana nel suo significato più profondo si configura come “memoria di Cristo”.

Esistere da “cristiani”, vuol dire prestare quotidianamente qualche attenzione a ciò che egli da detto, a ciò che egli ha fatto, a ciò che egli è, sull’esempio della Chiesa che non si stanca mai in ogni celebrazione di rileggere qualcuna delle parole del Signore e di contemplare qualche avvenimento della sua vita.

Anche perché rievocare ciò che Gesù è, significa conoscere sempre meglio ciò che siamo noi, dal momento che ogni uomo è una icona di Cristo – la sua immagine imperfetta ma autentica e viva – come Cristo è l’immagine autentica, viva e perfetta del Padre.

In Cristo noi sappiamo chi siamo e quale ultimo traguardo ci aspetti: se egli è “Salvatore”, allora noi non siamo degli “autonomi”, siamo dei “salvati da lui”; se egli è un crocifisso, allora ci rendiamo conto che la strada della croce è anche la nostra strada; se egli è risorto e glorioso, allora siamo certi che il nostro definitivo destino è la pienezza della vita eterna e la gloria; se egli è Figlio, noi siamo figli in lui dello stesso Padre celeste; se egli è l’uomo realizzato pienamente, allora ogni valore e ogni positività umana ci avvicina e ci conforma a lui; se egli è “Dio vero da Dio vero”, allora un’arcana ma effettiva partecipazione alla natura divina è, nella vita di grazia, la nostra impreveduta ricchezza.

L’uomo del nostro tempo è afflitto da una tristezza ineludibile e da un sottile sentimento di angoscia, soprattutto perché è “smemorato”: non ricorda più la sua origine e la sua mèta; ha dimenticato che cosa è venuto a fare sulla terra; ha perso di vista chi propriamente egli sia entro la variegata famiglia delle creature ignare.

Da questo stato di alienazione ci scampa il ricordo di Cristo.

“Fate questo in memoria di me”: la possibilità di vivere sul serio da uomini – cioè di essere ancora in grado di ragionare, di sperare, di trascorrere nella serenità e nella gioia i nostri anni – è, come si vede, il prezioso regalo dell’Ultima Cena del Signore.

20/04/2000
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