“La speranza non delude”. Senza il Signore, però, quante delusioni! In realtà è Lui che non è deluso da noi e non smette di avere speranza, contro ogni speranza ed evidenza, nell’umanità. Così ritroviamo noi la speranza: non ci abbandoniamo al fatalismo che ci fa sempre aspettare e pensare che possiamo non scegliere perché tanto non dipende da noi. Ci abbandoniamo alla fortuna cieca. La speranza ci vede bene e ci insegna a vedere: non chiudiamo gli occhi sui problemi, li apriamo con la luce della fede. Le nostre speranze si confrontano sempre con la delusione, tanto che pensiamo siano illusioni, anche belle ma illusioni per addormentarci o anestetizzare la tragedia della nostra condizione umana. Senza speranza finiamo per non credere più a nulla o, meglio, per credere solo in noi stessi, nelle cose, nella forza di cui siamo capaci. Ma quale? Il possesso, il culto di sé, la prestazione. Solo se crediamo che la speranza non delude affrontiamo difficoltà, limiti che sconsigliano di fare qualsiasi scelta e inoculano il senso di inutilità che spesso paralizza il nostro cuore. Solo se crediamo che la speranza si compie, che non è un generico auspicio, affrontiamo la nebbia di ottobre, sapendo e volendo che il seme a giugno darà la spiga! La speranza ci fa vedere oggi quello che sarà domani, riconoscere nel germoglio la pienezza, nel seme il frutto. Speranza non significa non lavorare, come vorrebbe un’idea stolta ma persuasiva di benessere, che rifiuta il sacrificio, la lotta, la preparazione, la pazienza, la severa perseveranza, poco attraente per persone abituate alla rapidità e al protagonismo, che non sanno attendere, che hanno fatto di tutto un diritto senza doveri. Senza la pazienza e senza il lavoro non vediamo le messi di giugno! La speranza ci fa lavorare con passione, ci libera dal tribunale della prestazione e dei confronti, perché abbiamo negli occhi e nel cuore quello che sappiamo accadrà. Senza finiamo disponibili a qualsiasi cosa, perché non sappiamo quello che cerchiamo o, semplicemente, perché non cerchiamo più nulla e ci arrendiamo alle prime difficoltà.
I due di Emmaus pensano che la speranza fosse un’illusione. Cristo, la speranza che li aveva fatti uscire dal piccolo villaggio, è stato messo a morte. Non è certo sufficiente per riaccendere la speranza, la vaga promessa di donne che hanno detto qualcosa e di fratelli che hanno verificato quello che avevano detto. Gesù cerca i due discepoli. Non lascia nessuno! Gesù ci cerca, non accetta, Lui, che viviamo senza futuro, custodi del passato che nutre amarezza e paura. Senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, le piccole speranze non bastano. “Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere”, scrisse Papa Benedetto XVI. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. “Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è «veramente» vita”. Il cristiano non fa proselitismo, come ricorda Papa Francesco, non nel senso che non parla di Gesù e non comunica la sua fede (e comunicarla ci aiuta a viverla!) ma ne parla, non la esibisce e ne parla con la vita (solo così le sue parole sono credibili, non viceversa!). Ed è amore, amore, non una lezione ma vita!
La speranza ci restituisce alla comunità. Il male divide perché suggerisce il salva te stesso. È quello che vivono i due discepoli, tornando tristemente nel piccolo mondo. Gesù risorto, che ha sconfitto la divisione e la morte, ci permette di capire che ci salviamo assieme, ricostruisce la comunità dispersa dal male e segnata dalla divisione. I due di Emmaus sono insieme, parlano, ma sono divisi. L’individualismo è conseguenza delle delusioni e sembra l’unico modo per sopravvivere in un mondo pieno di delusione, dove vince la forza e l’estraneità.
E, poi, noi stessi sperimentiamo la delusione personale di non essere quelli che avremmo voluto o pensato, come Pietro e le sue dichiarazioni di amore eterno. Il Vangelo non può essere funzionale all’individualismo! Si domandava Papa Benedetto XVI: “Come ha potuto svilupparsi l’idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la «salvezza dell’anima» come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?” (Spe Salvi 16). La comunione con Gesù è una relazione di amore! Apre, non chiude. Ci unisce, non ci isola. “L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere «per tutti», ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme” (Spe Salvi 28). Lo canta San Francesco: “Rapisca, ti prego, o Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei degnato morire per amore dell’amor mio”. San Francesco capisce che Gesù è morto per amore del suo amore, anche quando era sepolto sotto la rassegnazione, incatenato dalla paura, arrendevole di fronte al male. E San Francesco chiede per sé lo stesso amore: “io muoia per amore, per amore dell’amore tuo”, perché l’ho conosciuto, l’ho visto, l’ho sentito, mi ha preso il cuore e la mente. È amore e mi prende tutto. E chi ama il Signore ama il prossimo oltre che se stesso.
I due discepoli di Emmaus non si accorgono per niente delle cose belle che pure vivono. Troppo forte sono la ferita e l’amarezza, la crudeltà del male. Per amore dell’amore nostro Gesù continua a camminare con noi e a cercare la pecora smarrita, turbata. Il Signore li ascolta e poi giudica i due. Non li segue nel loro vittimismo, non li commisera per la loro tristezza, non li conferma nel sentirsi vittime, come un falso rispetto suggerisce. Giudica perché cammina con loro e parla dopo averli ascoltati. “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!”. Il suo giudizio è da amico che cammina con loro, non da giudice lontano, impassibile. Il giudizio del Signore non è mai una condanna, una certificazione, una verità che umilia e senza appello, ma sempre amore per amare, per aiutarci a ritrovare il cuore. Gesù spiega loro il mistero della sofferenza, quello che tanto ci ferisce e ci inquieta, della fragilità, del fallimento umano. Lo fa solo per amore nostro e per spiegare come si entra nella gloria sua, che è anche la nostra. Non troviamo speranza accontentandoci di una qualche introspezione personale, nemmeno raggiungendo il benessere individuale, ma solo combattendo il male, ascoltando Gesù che parla e ce lo spiega, parlando di sé, aiutandoci a capire chi è e chi siamo, entra nel profondo del nostro cuore, nelle sofferenze per amarle. Il giudizio aiuta i due a essere consapevoli, non li condanna, come fanno gli uomini che lasciano soli, senza dirgli nulla. Solo quando i due hanno capito l’amore, quando sono diventati consapevoli e sentono il bisogno del suo amore, e chiedono di fermarsi con loro, ecco che Gesù resta davvero con noi.
È il frutto della Parola, il giudizio che aiuta a vedere, che purifica gli occhi e il cuore tanto che finalmente si aprono. È quello che vuole Gesù e che in realtà serve a noi. Davvero è l’amico che ha già patito egli stesso le nostre insufficienze e perciò, con il suo giudizio ci aiuta a ritrovare noi stessi. Gesù ci vuole testimoni di speranza, della speranza di Gesù che non delude e non è mai illusione. Se condividiamo la nostra vita come accadde ad Emmaus gli occhi si aprono, i nostri, e ritroviamo la comunità, confermando i fratelli e facendoci confermare da loro. In un mondo di divisione, di estraneità, di destini individuali e di nazioni che si contrappongono invece di imparare l’arte di pensarsi insieme, in un mondo che diventa inesorabilmente e colpevolmente violento e temibile, i discepoli di Gesù sono “lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore”. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sparisce dalla loro vista, ma non hanno più paura: sta dentro di loro, sta in mezzo ai fratelli. Gli occhi del cuore si sono aperti. “Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi”. È così. Sarà così.