messa di Natale

Bologna, Cattedrale

“Prorompete in canti di gioia” (Is 52,9), ci ha detto il profeta. L’umanità intera sembra voler obbedire a questo antico invito e con lo sfolgorìo di mille luci, con la gentile consuetudine degli auguri e dei regali, con gli appuntamenti festosi delle famiglie e delle amicizie, moltiplica in questi giorni i segni di una esuberante allegrezza.

E’ la connotazione più simpatica del Natale e trae la sua origine dal tripudiante messaggio che esattamente duemila anni fa all’improvviso il mondo invisibile ha regalato alla terra: “Ecco vi annunzio una grande gioia” (Lc 2,10), ha proclamato l’angelo ai pastori ignari e stupefatti che come tutte le notti vigilavano i loro greggi. E subito la santa esultanza divampa nel firmamento: il giubilo irrompe da una “moltitudine di schiere celesti”, che lodano il Signore e invocano pace agli uomini che egli ama (cfr. Lc 2,13-14).

“Prorompete in canti di gioia, rovine di Gerusalemme” (Is 52,9).

Nella parola di Dio Gerusalemme è spesso la raffigurazione e la cifra dell’umanità intera. Gli spettacoli che sono sotto i nostri occhi e i guai di cui facciamo quotidiana esperienza ci inducono a pensare che non sia del tutto incongrua alla società dei nostri tempi e alla nostra stessa esistenza l’immagine della “rovina”.

Le “rovine” sono gravi e molteplici: le guerre e le guerriglie che non finiscono mai e insanguinano anche la terra di Gesù e della nostra redenzione; la miseria e la fame che attanagliano ancora una gran parte della famiglia umana; i crimini quotidianamente commessi nelle nostre strade; il dilagare della tragica stupidità della droga; le disgregazioni familiari che penalizzano irreparabilmente i figli incolpevoli; l’uccisione della vita nel grembo materno, addirittura legalizzata e pubblicamente finanziata; l’innocenza dei minori atrocemente violata. Eccetera.

Questa, delle “rovine di Gerusalemme”, è una triste litania che potrebbe a lungo continuare; e ci induce a domandarci: come è possibile in questo sfacelo dare spazio alla “gioia” annunziata dall’angelo?

Anche dall’intimo del nostro cuore non ci vengono voci più confortanti. Troppo spesso portiamo dentro di noi un fardello di amarezze che ci fa stanchi e delusi. Ci affligge la fatica del vivere, la preoccupazione dell’invecchiamento debilitante, la paura di affrontare l’incognita del morire. Assorbiti dall’ingranaggio del produttivismo e del consumismo, avvertiamo l’insoddisfazione propria di chi non si prospetta più nessun ideale. Siamo frustrati talvolta dai cambiamenti troppo rapidi e disorientanti, talvolta invece da un immobilismo delle ingiustizie che ci toglie ogni speranza che le cose migliorino. E così via.

Abbiamo qui elencato tutti questi indiscutibili motivi di costernazione e di pessimismo, certo non per guastare la serenità natalizia ma per avvalorare il dono che ci è venuto dall’alto; quel dono che ci consente appunto di lasciarci conquistare dall’entusiasmo del profeta che ha detto a tutte le nostre miserie: “Prorompete in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo” (Is 52,9).

La gioia esiste e, ci ha detto l’angelo, è alla portata di tutti: “Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). La gioia esiste ed è offerta a chiunque la cerca con cuore sincero. La gioia esiste, e ce l’ha recata dal cielo il Figlio eterno di Dio. Questa è la sostanziale “verità” del Natale.

Il segno per riconoscerla è inaspettato e sconcertante, come sono di solito le iniziative di salvezza di colui che ha chiarito di sé: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). “Questo è per voi il segno: – ha indicato ai pastori il messaggero di Dio – troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12).

Un bambino! Vale a dire, quanto di più debole, di più fragile, di più indifeso ci è dato di immaginare. Ma sta scritto: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,27). Quel bambino è l’apparizione, tra le nostre mestizie, dell’ineffabile sorriso di Dio, che è capace di fugare e di vincere ogni dura e opprimente ragione di sfiducia e di abbattimento.

Sulla distesa infeconda della vicenda umana – così monotona e così ripetititiva di sciagure e di colpe – finalmente è apparso qualcosa di diverso e di nuovo: il bambino che duemila anni fa è nato a Betlemme è quasi il fiore che buca la neve e sboccia sul gelo sterminato, inizio di una primavera inarrestabile che alla fine ringiovanirà il volto della terra e trasformerà in giardino di letizia il deserto delle nostre tristezze.

Come si fa a entrare nella realtà di rinnovamento e di gioia, che è offerto a tutti dall’evento di cui abbiamo la fortuna di celebrare oggi il bimillenario? La risposta sta nella pagina splendente del Prologo di Giovanni, che abbiamo ascoltato: “A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome ” i quali da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

Accogliere nella fede coerente e operosa il Signore Gesù; accoglierlo non come uno dei grandi uomini, uno dei maestri di religiosità e di morale, una delle possibili guide nei molteplici percorsi spirituali, ma come l’unico e necessario Salvatore di tutti, come “la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), come il “Verbo che “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14): questo è l’inizio della nostra risurrezione da tutte le possibili “rovine”; questa “è la vittoria che ha sconfitto il mondo” (1 Gv 5,4); questa è la sola strada della nostra rinascita personale e della rinascita dell’umanità intera.

Il Signore ci conceda di ripartire da questa liturgia natalizia un po’ meno persi e distratti dietro i relativismi aridi e le “aperture” scettiche e inconcludenti della cultura dominante, e un po’ più coerentemente e fattivamente credenti.

25/12/2000
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