Messa in ricordo di don Emilio Gandolfo nel 25° anniversario della morte

Scrisse, quasi come suo testamento, don Emilio Gandolfo: “Unica vera soddisfazione consiste nel poter dire: il Signore si è voluto servire di me. Gli onori e i riconoscimenti umani sono soltanto fumo negli occhi. Ciò che conta è l’amicizia. Sento incessantemente questo vincolo soavissimo e ringrazio il Signore del dono di tanti amici come la più vera ricchezza. È con tutti loro che spero di trovarmi un giorno a tavola nel Regno. Allora potremo bere insieme il vino nuovo come il Signore ha promesso nell’ultima cena, quando istituì il banchetto nuziale del suo amore, ordinando di fare questo in sua memoria e in attesa della sua venuta. Cosa disse allora consegnando il calice nelle mani dei suoi discepoli? In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio (Mc 14, 25). È un appuntamento al quale nessuno certo vorrà mancare”. Sono parole che pronunciò in occasione del suo 50° di sacerdozio.

Celebriamo questo pegno del pane del cielo, della parola di amore di Dio, in questa casa San Filippo Neri, memoria forse ancora non capita appieno da una Chiesa che non ha imparato quanto occorre “fare ogni cosa in un giorno, e che non si diventa santi in quattro dì, ma poco a poco, di grado in grado”. Diceva: “Non vi caricate di troppe devozioni, ma intraprendetene poche, e perseverate in esse”. Non tante devozioni, ma tanta devozione, esortava che si fuggisse da ogni singolarità (oggi diremmo individualismo, protagonismo). Non gli piacevano gli scrupoli, come cose che inquietano assai la conoscenza,  per questo molte volte non voleva sentirle da chi gliele voleva dire in confessione. Nel ricordo n. 35 del Maffa, il primo biografo attesta che “si accostava alla spicciolata ora a questo, ora a quello, tutti divenivano presto suoi amici”. Le chiese le teneva colle porte aperte, de sorte che la chiesa era impraticabile et a forestieri et a noi di casa, pel freddo grande et vento che entrava per tutto. “Trattava con tutti alla libera, senza troppe cerimonie, e l’ho osservato, moltissime volte, che, con prelati, vescovi e cardinali, fuggiva ogni sorte di cerimonie cortigianesche, e trattava con gran libertà christiana (sottolineato in rosso e blu) burlandosi delle cose del mondo perché tutto il resto è vanità, tanto da fondare la schola di santità et hilarità cristiana, tanto da rendere famigliare et domestica […] grata et facile a tutti la vita spirituale”.

L’ilarità San Filippo Neri l’aveva anzitutto verso se stesso, sapendosi prendere in giro e facendolo “alla libera” con tutti, senza riguardo per l’apparenza, con tanto riguardo per ogni persona, ad iniziare dai poveri. Il suo cuore grande ci aiuta, oltre al ricordo di tanti discepoli di San Filippo, come Padre Pippo Ferrari. Oggi non ritroviamo solo tanti pezzi di ricordi, davvero lontani in quel mistero della vita che ci accompagna e che si rivela e si rivelerà nella sua pienezza, di un mondo e di una scuola che ha seminato tanto, di tante persone che non vivevano l’insegnamento come una professione ma come un servizio. La scuola allora si misurava con un cambiamento tempestoso, non solo anni pieni di speranza, quasi travolta da questo. Generosità e presunzione, speranza e utopia, sogno e ideologia che arrivava alla violenza, seme terribile che porta tanta morte, seme pericoloso anche quando inerte. Occorre ritrovare quello che unisce e, se volete, capire di più quello che divide ma per farne motivo di ricchezza e non di distruzione.

Oggi ricordiamo un uomo mite e buono. Quanto immutato orrore per la sua morte, mai chiarita, pensando proprio alla sua vita disarmata, il 2 dicembre a 80 anni nella sua casa che non chiudeva a nessuno! Un uomo che ha cercato, mai inutilmente, di appassionarci ad un Signore vicino, di farcelo capire con i colloqui, cui era sempre disponibile, anche a orari impensabili, direi senza orari. Don Emilio è un uomo del Concilio: l’ha veramente vissuto nella sua dimensione spirituale più autentica.Sapeva che avrebbe dato frutto, libero dal risultato immediato, senza moralismi ma sempre con tanta forte esigenza morale, con fiducia nella conoscenza, senza supponenza e nemmeno senza rincorrere giovanilismi destinati a invecchiare precocemente. Era disponibile ad aiutare, ascoltare, orientare, con profondità e sapienza umana e spirituale. Perché, come abbiamo ascoltato, non bisogna mai giudicare secondo le apparenze, per cercare quel sogno di Dio sul mondo nel quale il lupo dimorerà insieme all’agnello.

Vedeva e cercava nella vicenda umana la profezia di Dio, quella per cui il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso, cioè il male sarà sconfitto, e quando le persone non agiranno più iniquamente né saccheggeranno. Era la sua speranza, ingenua, accorgendosi bene dei problemi ma cercando ostinatamente il bene in ciascuno, relativizzando i problemi, facendo sentire la protezione di Dio che non sarebbe mai mancata. Lo ascoltiamo oggi in un mondo che uccide i bambini e li umilia. I piccoli capiscono mentre i sapienti e i dotti non riescono. “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete”. Parlava a tutti, senza distinzioni, abbattendo muri e costruendo ponti.

Ringraziamo per questo “prete umile e schivo, per la sua presenza tra noi tanto luminosa e serena, per quanto lui ci ha dato e ha significato nella nostra vita”. Don Emilio voleva solo essere discepolo del Signore, in quell’incontro personale, intimo con Cristo. Primo Mazzolari, scrivendogli in occasione dell’ordinazione sacerdotale, lo aveva capito subito: “Tu vedi col cuore e ti sei messo dalla parte dell’amore per vedere il tuo altare”. Sperimentava con Agostino che “per trovare il Signore bisogna cercarlo perché è nascosto e quando si è trovato bisogna cercarlo ancora perché è immenso”.

I Padri erano i suoi compagni: il suo Gregorio, Agostino, Ambrogio, Origene, i Cappadoci, fino a Charles De Foucauld, a Teresa di Lisieux, Bernanos, Erri De Luca, don Milani, padre Turoldo, Pomilio, Pier Giorgio Camaiani, senza compiacimenti ma per comunicarli con le sue lettere. Non a caso era entrato giovanissimo nella Card. Ferrari, nella Compagnia di San Paolo, tentativo originale di vangelo per tutti, con i laici che lo vivevano e lo annunciavano. “Il Virgilio era l’unico luogo dove il nomade Emilio aveva messo radici”. Quanti amici aveva don Emilio? Con una ti manteneva una relazione?  Preparandosi al Giubileo del 2000, scrisse: “San Paolo diceva Virtus in infirmitate perficitur. Sì, la forza di Dio si manifesta pienamente nella nostra debolezza. E ci soccorre un pensiero di sant’Agostino: Attraverso strutture provvisorie: per machinas transituras, il divino architetto costruisce domum mansuram, la casa in cui abiteremo con lui per sempre”. “Dio è nascosto”, amava ripetere. Per trovarlo bisogna cercarlo. Dio è immenso: quando lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora, ricorda don Nistri. La sua intelligenza e rispetto potevano essere considerati un po’ evanescenti, poco concreti, distaccati da faccende terrene, ma guardava tutto e tutti in profondità.

Ricordava una pagina de “La peste” di Camus. Rambert, che ai primi sintomi della peste cercava di mettersi in salvo, raggiungere sua moglie e la sua terra oltre il mare, ha deciso di non partire ma di restare. Si è persuaso che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna, e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato. Inutilmente il dottor Rieux gli fa osservare che la cosa è stupida e che non c’è vergogna nel preferire la felicità. “Sì”, dice Rambert, “ma ci può essere vergogna nell’essere felici da soli”. E a motivare la sua decisione di restare, aggiunge: “Ho sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che il mio posto è qui, lo voglia o no”. Questa storia riguarda tutti. Nella misura in cui la speranza dei cristiani cessa di essere la speranza di tutti gli uomini, essa perde vigore anche nel cuore dei cristiani; è sale destinato ad essere calpestato perché ha perduto il suo sapore, e ha perduto il suo sapore perché ha cessato di essere il sale della terra.

“Sono anzitutto cristiano con voi, e sacerdote per voi, per parlare di Lui a voi e di voi a Lui” scriveva don Emilio, che aggiungeva: “Quando vedremo Dio faccia a faccia e lo conosceremo come lui ci conosce, allora non ci sarà più bisogno delle Scritture e non dovremo più leggere le Lettere che Dio ci ha fatto pervenire per aiutarci a camminare per arrivare a casa, in quel glorioso regno che solo amore e luce ha per confine. Cristo mio fratello, in tutto simile a me, ha tremato di paura di fronte alla morte… E proprio perché ha patito può capire, e perché capisce può aiutare chi è nella prova. È dall’angoscia che è nata la speranza”. Nessuno appartiene a se stesso, ma ci apparteniamo a vicenda. E ci apparteniamo davvero se impariamo ad accoglierci l’un l’altro, come il Cristo ha accolto. Solo per amore.

Roma, Chiesa Nuova Santa Maria in Vallicella
03/12/2024
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