Messa in suffragio di don Giussani

Bologna, Cattedrale

Questa sera il ricordo di don Luigi Giussani si unisce alla festa della Cattedra di San Pietro. E’ una coincidenza certamente non scelta da noi, ma che riceviamo come è, Provvidenza di Dio. Dovremmo fidarci meno dei nostri programmi e leggere di più i tanti segni che il Padre provvidente non fa mancare ai suoi! 

Come commento del legame tra don Luigi Giussani e la Cattedra di Pietro e quindi con colui che è seduto su di essa – chiunque, guai a distinguere! – evoco l’immagine al termine del suo discorso in Piazza San Pietro, nella veglia di pentecoste del 1998. Giussani, con non poche difficoltà dovute alla malattia, cerca di mettersi in ginocchio con totale abbandono davanti a Papa Giovanni Paolo II. Desiderava esprimere fisicamente e davanti a tutti l’obbedienza che sentiva per il Papa. Aveva un rapporto di totale affidamento a Roma, figlio della Chiesa di Sant’Ambrogio per il quale “Ubi Petrus ibi Ecclesia”. E senza discussioni. 

Gesù sceglie Pietro perché presieda nella carità. Non è un perfetto secondo il lievito dei farisei o un forte secondo quello di Erode. Affida tutto ad un uomo del quale ci è fatto conoscere senza riguardo il peccato e i tratti della sua umanità. Gesù vuole per i suoi una casa che resista alle piogge, ai venti, ai fiumi ed indica Pietro – del quale conosce il tradimento che da lì a poco lo avrebbe allontanato da lui – come la roccia.

Pietro riconosce Cristo, sulla sua parola getta le reti, piange e con il suo peccato si mette in cammino facendo suo il “seguimi”. La sua “cattedra” è la Madre di tutte le Chiese e il suo servizio è quello della comunione, dono santo di Dio da non bestemmiare mai, servito dal pastore e con l’indispensabile amore di tutto il corpo. 

In San Pietro Bernini pose la Cattedra in alto, al centro della Basilica. Papa Benedetto la descrisse così: «Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra che la Chiesa stessa è come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo. La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile. I tanti raggi danno il massimo risalto alla finestra, con un senso di “pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso”». 

Mi piace pensare che il ministero di comunione di Pietro orienta e unisce anche quei raggi che siamo ognuno di noi, i nostri diversi carismi, riflessi tutti dell’unico dono che è l’amore di Dio e verso cui essi stessi vanno. Il dono non è mai per sé ma sempre e solo per Cristo!

Il divisore disperde i carismi, li rende uguali, spesso mediocri o incapaci di aiutarsi, induce a pensarli da soli, a impadronirsene, a contrapporli agli altri, a farne motivo di gloria umana e non di Dio. La diversità dei doni nasce da un unico Padre ed è una ricchezza quando al centro c’è Cristo che ci fa sentire tutti figli, mai uguali tra loro ma nemmeno mai senza gli altri.

La tentazione dei cristiani è smettere di essere figli, pensando che questo sia segno di maturità. Siamo adulti non quando siamo autosufficienti – che tristezza e quanto diventiamo banali figli del mondo! – ma nella interiorità del cuore e della mente. Siamo adulti quando non smettiamo di essere generativi, di perderci per gli altri, semplici come bambini, figli e fratelli, non orfani e soli.

Siamo adulti nella fede se non smettiamo di emozionarci per i segni dell’amore di Dio, per i tanti “fatti” che la Parola realizza, usando la nostra povera umanità da mendicanti di senso. Siamo adulti se non perdiamo la gratuità del dono incontrando e servendo i fratelli più piccoli di Gesù.

Se ci emozioniamo ancora (stupore) vedendo la vita di una persona che cambia e se desideriamo con il nostro incontro e con la nostra umanità aiutare che questo avvenga cercando che l’avventura riviva sempre, vuol dire che non siamo vecchi! Giussani non accettava un cristianesimo ridotto a facciata, borghese, compiaciuto di sé, asservito al benessere individuale, piegato alla mentalità del mondo, lontano dalla vita vera, pieno di giudizi e di una morale vuota, senza passione, che non viveva la libertà dell’incontro con l’altro o che perdeva se stesso nel dialogo!

E noi, non viviamo oggi tempi in cui c’è chiesto di vivere quella stessa passione per raggiungere il desiderio di futuro, di bello che inquieta i cuori di tanti ed è nascosto in tutti? La Chiesa è sempre solo di Cristo, non di Pietro. 

La passione per Cristo che ha testimoniato don Giussani era intimamente legata alla passione per l’uomo. Sono i due lati dell’amore di Dio. Guai a separarli! Peguy diceva che noi dobbiamo imitare Cristo, ma che Lui ci insegna ad imitare l’uomo, perché Gesù è la “perfettissima imitazione della miseria mortale e della condizione dell’uomo”.

Scindere queste due esperienze è l’origine degli ‘ismi’ che ci allontanano dalla realtà, non ci fa ascoltare cosa ci chiede oggi Cristo perché pensiamo di conoscerlo già, ci riempie di paure e ci chiude in un mondo che potrà essere pure agitato ma è privo di vita vera. La paternità garantisce questa trasmissione vitale dell’amore, che avviene sempre attraverso persone, non in laboratorio, ma dentro una storia concreta, segnata dal nostro peccato e dalle nostre fragilità, ma sempre bella perché luogo dell’avventura di Dio con noi. 

Ringraziamo del carisma che Giussani ha vissuto, che è stato confermato da Pietro e che ha permesso il dono che siete ognuno di noi nel quale vive, si conserva e si trasforma. Molti di noi non sono più giovani. “Essere giovani vuol dire avere fiducia in uno scopo.

Senza scopo uno è già vecchio. Infatti la vecchiaia è determinata da questo: che uno non ha più scopo”. Ecco cosa è chiesto ad ognuno. E nella sofferenza che la pandemia rivela e genera accettiamo la sfida della crisi, opportunità per comunicare oggi una presenza viva, una compagnia intelligente, perché l’identità è quella dell’amore fedele che si fa prossimo di tutti, non facili dichiarazioni.

Siamo forti e per questo capaci di dialogo che non annacqua ma fa valere e conoscere la nostra identità. Il dono singolare delle nostre persone (carattere, storia, esperienza, capacità) si realizza nella comunione, che non è un condominio, magari con molti confort, con tutte le regole e garanzie necessarie, ma privo di vita. In una stagione dove il protagonismo di ciascuno è la vera idolatria, tanto da essere un demone che fa dividere anche al prezzo di indebolirsi, la comunione è la passione che la carezza del Nazareno arrivi alla persona che incontriamo. E’ l’amicizia tra noi che accoglie i tanti soli. 

Don Giussani era attento ad ognuno e riconosceva in tutti il desiderio di Dio, che cercava, aspettava, scopriva perché sapeva che Dio è tutto per ogni persona reale che incontriamo sul lavoro o il vicino di casa, o per la strada. Dio non è tutto solo per l’uomo religioso o per chi ha un particolare temperamento.

Quell’uomo non lo sa, come non lo sapevamo noi che, forse prima di incontrare il movimento, ci eravamo allontanati dalla Chiesa perché era una aggiunta, un rito, una tradizione che non diceva nulla alla vita nelle sue esigenze fondamentali oppure avevamo ad essa un’appartenenza vuota, formale, borghese si sarebbe detto.

Ogni carisma è un dono dello Spirito perché si possa arrivare a tutti. “Per l’uomo reale Dio è tutto, c’entra con tutto, col modo con cui vuoi bene, col modo con cui lavori, col modo con cui parli” e non è scindibile questo amore a Cristo dalla passione per l’uomo anche perché come Carron ha recentemente detto “solo l’amore è credibile”. Oggi la sfida è non perdere la totalità della scelta e difenderla con un uomo interiore che risponde alla domanda di senso e bellezza che è in tutti. 

Vorrei concludere con una preghiera cara a Giussani, di Grandmaison, che imparò quando aveva quindici anni e che, come scrisse “è la preghiera in cui più luminosamente è descritto che cosa sia l’amicizia radicata nella fede. Infatti l’io dell’uomo è destinato a essere insieme a tutto ciò che c’è, al mistero dell’Essere. Perché? Perché è stato fatto a immagine di Dio e Dio è una comunione, la comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito – il mistero della Trinità. Un io solitario è un io perduto, così l’io che non è solitario viene sostenuto dalla compagnia che è amicizia, e l’amicizia è creata da un’obbedienza”. 

“Santa Maria, Madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, puro e limpido come acqua di sorgente. Ottienimi un cuore semplice, che non si ripieghi ad assaporare le proprie tristezze; un cuore magnanimo nel donarsi facile alla compassione; un cuore fedele e generoso, che non dimentichi alcun bene e non serbi rancore di alcun male. Formami un cuore dolce e umile che ami senza esigere di essere riamato, contento di scomparire in altri cuori, sacrificandosi davanti al Tuo Divin Figlio; un cuore grande e indomabile, così che nessuna ingratitudine lo possa chiudere e nessuna indifferenza lo possa stancare; un cuore tormentato dalla gloria di Cristo, ferito dal Suo amore, con una piaga che non si rimargini se non in cielo”. 

L’ha imparata a quindici anni, l’ha resa vita con tutta la sua vita. 

“Capire vuole dire cogliere la corrispondenza profonda tra quello che ti si dice ed il tuo io, le esigenze del tuo io, le esigenze profonde del tuo cuore, le esigenze profonde del tuo vivere. Obbedire non è dire di sì, fare quello che ti dicono. Nossignore! Obbedire incomincia come sforzo e lavoro (attenzione che è un problema di semplicità di cuore, cioè riconoscere l’evidenza di una corrispondenza tra quello che ti si dice e le esigenze del tuo cuore, della tua vita). Se io ti faccio capire che quel che ti dico, te lo dico perché corrisponde alle esigenze del tuo cuore, tu mi dici: «Grazie che me lo hai detto! Grazie che me lo dici!», e questo diventa tuo, e tu devi seguire te stesso. Questo è il seguire la propria coscienza; la vera propria coscienza è la propria coscienza resa grande e matura da un incontro. E questo fa diventare amici. Il vero seguire è amicizia, la vera obbedienza è amicizia.

Diceva Giussani per spiegare la sua esperienza: «Tutta la vita chiede l’eternità». Questa frase tratta da una canzone composta quarant’anni fa da due liceali di Milano documenta il primo impeto da cui sento descritta la mia esperienza: una passione per l’umanità.

Non l’umanità come termine di una definizione di sociologi o di filosofi, ma quella che mi hanno comunicato mio padre e mia madre. Non esiste umanità se non nell’io, altrimenti sarebbe un’astrazione in nome della quale si possono compiere le più terribili ingiustizie. È perciò una serietà estrema che occorre per notare, per raccogliere le esigenze, le aspirazioni che definiscono l’umano. In questo c’è il legame profondo tra la coscienza personale e la comunione.

22/02/2021
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