Messa nella Tredicina di Sant’Antonio

Abbiamo tanto bisogno di questo Vangelo che ci parla della resurrezione e ci ricorda che Dio non è un Dio dei morti ma dei vivi. Respiriamo, nascosto da tanto vitalismo e dalla bulimia del consumo, odore di morte. Inizia con la polvere sottile della rassegnazione che inquina l’anima e la spegne poco alla volta.

C’è odore di morte nell’abitudine al dolore degli altri, quando la disillusione e il fatalismo pratico portano alla rozza convinzione che non cambia nulla, che niente vale la pena e quindi vale solo quello che serve a me, che posseggo, che piego al mio io. È odore di morte la solitudine, tortura che la anticipa, che indebolisce, che porta a scartare la vita, quando, cioè, è considerata morta prima, inutile, un peso, priva di valore.

Il nostro è un Dio che ama la vita perché ama la persona, creata a sua immagine. Per questo combatte la morte con l’unica forza capace di sconfiggerla: l’amore. È un Dio dei vivi, non dei sonnambuli che non si rendono conto. È un Dio di vita vera, non quella caricatura pornografica, oscena rappresentazione di vanità, che rimuove la fragilità, che ci fa credere quello che non siamo o ci costringe ad essere quello che non saremo mai, pornografia che umilia la debolezza tanto da farla apparire una colpa o una vergogna e fa cercare con ossessione vita nell’esibizione, nel consumo, nell’apparenza, nel possesso.

Sant’Antonio, discepolo di Gesù e che continua per questo a mostrarcelo, a farlo nascere nel nostro cuore, a indicarci la debolezza della sua nascita, è una stella luminosa nel cielo della vita, che ci aiuta ad alzare lo sguardo, a penetrare il buio del futuro, a non arrenderci all’ombra della morte che vuole spegnere l’entusiasmo e ci rende prigionieri della paura.

La luce è Cristo, che ci libera dall’egoismo. Sant’Antonio ci aiuta ad alzare lo sguardo e la sua presenza la sentiamo così viva particolarmente qui e ci aiuta a scegliere la vita. Ci sentiamo rafforzati nel nostro cammino così come avviene sempre tra i discepoli di Gesù. Antonio ci aiuta a capire come l’amore non è mai inerte, non è distante, perché Dio accoglie le nostre domande profonde come quelle di Tobia “ricòrdati di me e guardami”. 

I sadducei non credono alla resurrezione. Erano intelligenti (gnostici, direbbe Papa Francesco) pieni di sapienti interpretazioni o cinici osservatori del presente, come chi non crede a niente perché tutto finisce. In realtà crediamo poco alla resurrezione, cioè che la vita cambi, che quello che è vecchio diventi nuovo e che il nostro corpo ritroverà sé stesso.

Tutto diventa volatile, accidentale e noi inevitabilmente fatalisti e vittimisti. La speranza è solo un fantasma della mente e senza resurrezione la vita diventa un disperato conto alla rovescia. I sadducei lasciavano alla morte l’ultima parola e così la vita si perde per sempre. Possiamo cercare di arraffarla più che possiamo, con la preoccupazione di non perdere nessuna possibilità e esperienza, perché in fondo c’è solo il presente. Non essendoci vita dopo tutto si estingue con essa. 

Gesù indica un legame molto stretto tra la nostra vita terrena e quella eterna. Saremo angeli ma la nostra carne, il nostro corpo, verranno trasformati, non sostituiti. Già oggi possiamo vivere come angeli e vedere i germogli, le primizie di qualcosa che si manifesta dopo.

Gli angeli non sono fuori del mondo, anzi, sono pienamente umani e persone, come chi ama. Nel seme c’è già il fiore, si nasconde tutto il frutto anche se dolorosamente deve cadere a terra per poterlo generare. I riflessi della vita che non finisce, che risorge, li vedremo pienamente solo dopo la morte, quando saremo anche noi angeli, ma sempre saremo noi stessi, nella pienezza, perché Dio è dei vivi e non dei morti e degli amici della morte.

Se c’è solo la terra siamo costretti a cercare il cielo qui. Viviamo, invece, fin da oggi come angeli, anticipo di quello che vivremo pienamente in cielo. Gli angeli si saziano gli uni gli altri, sperimentano che il mio e il tuo è unito e che l’amore per sé stessi e quello per il prossimo non divergono ma si completano e si nutrono. Gli angeli donano e così trovano sé stessi.

Ci aiuta Sant’Antonio. Quest’oggi meditiamo in particolare sulla sua scelta di abbandonare i monaci agostiniani nei quali giovane era entrato, in Portogallo, per seguire San Francesco. Cambia quando assiste ai funerali dei cinque fratelli uccisi in Marocco, i primi martiri del francescanesimo. Davvero la testimonianza produce sempre frutti che noi non misuriamo, e rende la nostra vita fertile perché donata.

Sant’Antonio lascia il monastero poiché si mette in viaggio, sente l’urgenza di portare il Vangelo a tutti, l’inquietudine di raggiungere i tanti che non conoscono Gesù. È la conversione pastorale e missionaria che chiede a tutti Papa Francesco. Non possiamo accontentarci di quello che già facciamo. Certo, ci domandiamo: non andava forse bene la sua vita? Ovviamente sì, studiava sui libri quello che scelse di portare con la sua parola e il suo esempio.

Antonio sentiva che mancava questa dimensione di annuncio del Vangelo, la radicalità della testimonianza, il coinvolgimento personale, una fraternità non chiusa, ma aperta. Fernando, si chiamava, era un buon frate che aspettava ma diventa un appassionato comunicatore del Vangelo che va subito verso il prossimo, che non aspetta più. 

In questi mesi ci siamo trovati di fronte alla pandemia. Possiamo accontentarci di vivere bene nel nostro monastero, essendo anche capaci di cose buone, ma senza misurarci con la complessità del mondo, con la forza della divisione, dell’inimicizia. San Francesco manda i suoi a testimoniare Gesù, non si chiudono in un mondo dove si può discutere all’infinito sulle interpretazioni, giudicare, condannare, distinguere.

Per questo Sant’Antonio cambia nome. Da Fernando sceglie Antonio, che andò nel deserto a combattere il male e non si accontentò di fare qualcosa, ma cercò di mettere in pratica tutto il Vangelo. Occorre definirsi di nuovo, cambiare per mettere in pratica il Vangelo. L’augurio è di poter ripetere con Sant’Antonio: «Vedo il mio Signore!», e che tanti possano vedere in noi il riflesso dell’amore di Dio. 

Padova, Basilica del Santo
02/06/2021
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