Messa per il 78^ anniversario della strage di Monte Sole

La liturgia oggi ci fa ascoltare il grido lancinante del profeta Abacuc. Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi?”. È il grido di tutte le vittime, profeti che cercano e chiedono luce, che feriscono con il loro urlo di dolore. Dio le ascolta e ci chiede di ascoltare. Le vittime chiedono di combattere le cause della loro sofferenza e di fare ciò che permetta non accada più. Qui a Marzabotto ascoltiamo oggi il dolore di questi nomi che sono persone, tutti nostri parenti, che ci aiutano a sentire nostri parenti le vittime che oggi sono uccise, ferite, torturate, segnate per sempre dalla guerra. Il sangue di Abele sparso qui ci chiede di essere uniti spiritualmente e umanamente alle stragi, conosciute e occultate, che si stanno consumando davanti ai nostri occhi. Non possiamo dire che non sappiamo. Ignorare non assolve, perché vuol dire che abbiamo cambiato canale, chiuso gli occhi, digitato un’altra immagine! Fino a quando?

 La risposta di Dio è chiara, definitiva, drammatica e commovente: “Ho ascoltato e per questo mi faccio vittima perché tutti comprendano, riconoscano e combattano il male”. In ogni vittima vediamo il volto di Cristo e se noi siamo crocifissi nella nostra sofferenza vediamo Dio che è davvero con noi, fino alla fine, alla morte che è nostra ed è diventata sua. Anche per questo: trasformiamo le lance in falci, le croci in tavole di fraternità! Ma il grido di vita e di pace delle vittime non viene ascoltato dagli uomini, perché si abituano, lo mettono a tacere, pensano che riguardi altri. Le vittime ci ricordano, invece, che quello che è successo a loro può accadere anche a noi, perché non succede sempre agli altri! E tutti, a cominciare da me, lasciamoci interrogare da questi profeti: abbiamo fatto tutto quello che potevamo contro il demone della guerra? Abbiamo disinquinato l’aria dall’odio, dal pregiudizio, dall’incapacità di ascoltare il prossimo, dal giudizio ideologico? Stiamo facendo quello che è necessario per fermare la guerra? Non possiamo permettere che l’uso di armi nucleari diventi convenzionale, che si normalizzi! Solamente il dialogo, qualcuno ha detto anche solo esplorativo, è essenziale in quest’atmosfera di guerra e di guerra nucleare! E il dialogo deve riportare allo spirito della coesistenza. Per noi cristiani il dovere di cercare con forza la pace ce lo ricorda l’apostolo: “Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”. Il cristiano non può essere tiepido. Lo diventiamo quando ci scaldiamo solo per i problemi che ci coinvolgono (e la guerra non ci coinvolge?), perché prigionieri del “salva te stesso”, prudenti ma senza amore e quindi solo pavidi. Un cristiano non può mai, per nessun motivo, benedire la guerra. Benedire la guerra e le armi è una bestemmia a Cristo, perché Lui è la prima vittima di tutte le vittime. Gesù impone che la spada sia rimessa nel fodero. Il cristiano deve solo vivere il Vangelo disarmato di Cristo, seguirlo nella sua scelta, l’unica che vince il male. La forza di Dio è solo l’amore, la compassione che impone di fermarsi, non passare oltre, rispondere al male come si può, con quello che si ha: un po’ di olio e vino da versare sulle ferite, cinque pani da condividere, il bicchiere d’acqua da offrire, tutto senza aspettare che qualcuno ce lo chieda. La fede non è una risposta che richiede tutto e su tutto. La fede è un granello di senape, piccolo, che però se lo gettiamo nella terra della vita può spostare le montagne. Tanti cristiani credenti e non di eredità ce lo hanno dimostrato! Siamo servi inutili, non perché non importanti, ma perché liberi dall’orgoglio, dalla considerazione e dal ruolo, per fare tutto solo per amore di Colui che ci ha preso a giornata e continua a chiamarci a lavorare con lui, che è il primo lavoratore nella vigna del mondo, peraltro quella destinata a noi!

Tra le voci delle vittime vorrei ascoltare con voi quella tenera e fermissima di Cornelia Paselli, l’ultima superstite della strage del cimitero di Casaglia. La ricordo perché abbiamo tutti un grande debito verso di lei e anche perché adesso, che purtroppo non è più tra noi, la sua voce deve diventare la nostra perché non sia perduta. Il suo dolore lo ha consegnato a noi. Descriveva così quel terribile giorno della strage, lei adolescente, giorno che è un oggi per tante vittime in tanti pezzi della guerra mondiale: “Dopo un tempo interminabile, dal silenzio tutto intorno, mi giunsero delle voci. Parevano provenire da un luogo lontano, remoto. Compresi di essere rimasta ore sotto ai corpi. Tra i deboli richiami, riconobbi la voce di mia madre: «Cornelia, sei ancora viva?» Non ebbi il coraggio di risponderle, ma lei insisteva e così le dissi: «Sono viva, mamma! Stai zitta, per carità! Se ti sentono, ti trovano e ti ammazzano!». «Gigi e Maria se ne sono già andati e io ho le gambe tutte mitragliate. Non sto più in piedi». Tentai di tranquillizzarla dicendole: «Appena posso, vengo ad aiutarti». Appena la via fu libera, mi districai con grande difficoltà da quel macello. I corpi si fanno così pesanti quando sono morti. Quando potei guardarmi intorno, vidi una scena terrificante, da non poterla raccontare. Nessuno può immaginarla. Bisogna averla vista, per comprendere. Trovai quel che rimaneva della mia famiglia: mia sorella era ferita ad una gamba, mia madre le aveva entrambe maciullate e perdeva molto sangue. La presi tra le braccia e l’adagiai contro al muro, accanto alla cappella, perché fosse riparata dalla pioggia che non cessava di cadere. Non sapevo come aiutarla, poi mi venne in mente che nella borsa avevo il cappottino che stavo cucendo. Strappai le maniche e creai con quelle due lacci con cui tentare di fermare l’emorragia. Vedendo che avevo in mano della stoffa, la mamma mi indicò il corpo di una donna. Era riversa a terra poco distante. Non aveva le mutande, perché nel fuggire a Casaglia non aveva avuto il tempo di vestirsi tutta. Giaceva così, scoperta, accanto al corpo del suo bambino: «Coprila, Cornelia. Coprile il sedere, per favore». Tutti hanno diritto alla propria dignità, anche da morti, così feci come mi aveva chiesto”. Cornelia usa la cosa più bella che ha, il suo cappottino, per cercare di salvare la mamma, e la mamma morendo si preoccupa della dignità del prossimo. Ecco le luci che illuminano l’impero del male. Racconta Edith Bruck, ad Auschwitz a tredici anni: “I piccoli gesti di umanità che incrociai ad Auschwitz io li chiamo i cinque punti di luce nel campo: un cuoco che mi chiese come mi chiamavo, ad esempio. Non tutto era finito: anche in quell’orrore c’era stato un briciolo di umanità. Non potevo disperderla”. Tutti ricordiamoci di essere una di queste luci con la nostra umanità verso chiunque. Queste luci sono il fondamento del nostro Paese, nato proprio su questi valori.

Cornelia conclude il suo bellissimo libro così: “Ricordo che, per lunghi anni, le poche volte in cui mi vennero rivolte delle domande sulla strage di Casaglia, per via di uno strano riflesso nervoso, mi mettevo a ridere – a ridere! Piano piano, il bisogno di raccontare ciò avevo vissuto iniziò a premere da dentro, come un’infezione che doveva spurgare, ma trascorsero anni prima di trovare orecchie disposte ad ascoltare. Molti non credevano che un orrore simile fosse potuto accadere, altri desideravano semplicemente dimenticare la guerra il prima possibile. Tornai al cimitero di Casaglia in occasione di ogni commemorazione dell’eccidio. Le prime volte fu terribile. Sentivo la disperazione assalirmi appena vedevo quei muri maledetti e desideravo andarmene il prima possibile”. Lei, solo perché i ragazzi volevano conoscere la sua vicenda, inizia a ricordare ad alta voce. “Sentii che era un dovere, non solo per non dimenticare, ma anche per dare un senso a quel che era accaduto. Così, piano piano, il dolore lasciò spazio alla pace e tornare al cimitero fu per me sempre meno terribile, quasi una cura. Mia madre mi aveva insegnato il valore del perdono e io ero felice di non aver dimenticato. Lo dimostrai diversi anni fa. Un giorno, trovai dei fiori davanti alla porta di casa. Era un gran bel mazzo, con un biglietto recante il mio nome, ma senza firma. C’era scritto: «Sono stato a Marzabotto». Il giorno dopo, il misterioso “signore” bussò alla mia porta. Si presentò e disse di essere il preside di una scuola di Kassel. Ascoltò il racconto della strage di Casaglia direttamente dalle mie labbra, poi mi fece una richiesta che lì per lì mi lasciò perplessa: voleva che lo seguissi in Germania, per raccontare di persona ciò che avevo visto ai suoi studenti. Andai e fu un bene per me. Quando incrociai gli sguardi di quei giovani, realizzai qualcosa che mi tolse un gran peso dal cuore: sentii che non provavo rancore nei loro confronti. Quando ripenso alla guerra, non mi interessa distinguere tra buoni e cattivi. Il mio ricordo va a coloro che non ci sono più. Il mio desiderio è che ciò che è successo loro serva da monito per tutti, ogni volta che il rancore e l’incomprensione rischieranno di prendere il sopravvento”.

Ecco come si costruisce la pace. Ci servono tanti presidi che non hanno paura e tante Cornelia che non hanno paura, tante luci nel buio dell’intolleranza, della violenza, dell’ideologia. Scegliamo che la voce di Cornelia sia ascoltata. Scegliamo di lavorare in questo mondo con il nostro granello di senape, quello di essere uomini di fede e che la fede la vivono non nel chiuso dell’intimità ma nel mare burrascoso della storia, come Gesù. Fede perché si fermi la follia della guerra, per combatterne le cause, per vivere da “Fratelli Tutti” ad iniziare da noi.

“Vieni Signore, immenso il dolore, ma ancora non siamo stanchi di sperare”.

Chiesa parrocchiale di Marzabotto
02/10/2022
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