Morire di speranza

Quante persone sono sommerse dalle onde del mare della vita, a volte così improvvisamente e tragicamente minaccioso. Quante fragili imbarcazioni non trovano protezione, sicurezza. La vera imbarcazione fragile, fragilissima,  è il corpo stesso dell’uomo. Quante grida di aiuto nell’immensità del mare, nel terribile sconfortante abbandono del deserto, sotto i camion nel disperato tentativo di varcare la frontiera e dispersi in quei deserti di vita che sono i campi profughi, realtà dove l’uomo è un oggetto privo di significato, dove la vita non vale nulla perché non c’è nessuno che la difenda e non c’è umanità che la aiuti, dove lupi abusano di corpi che sono tali solo perché nessuno li difende e sa dire che “quello è un uomo”. Sono grida uguali a quelle dell’apostolo che ci sono state lette nel Vangelo. “Salvaci, Signore, siamo perduti!”. Molte volte cadono nel silenzio, come avviene in quei luoghi dove ci sono tante persone, ma un solo grande silenzio avrebbe cantato qualcuno. Gesù non resta lontano, non regala indicazioni anche sagge ma restando sulla terra ferma, magari sentendosi generoso o infastidito per l’agitazione. Gesù condivide la fragilità della nostra imbarcazione. Non mette a rischio nessuno, ma vuole che tutti si salvino. Cerca una soluzione, libero dalla legge del sacerdote e del levita che non si fermano pur avendo visto l’uomo mezzo morto perché seguono i loro regolamenti e non la misericordia, che è la vera regola di Dio. Gesù salva, perché la volontà di Dio è che nessuno dei suoi e nostri piccoli vada perduto. E la volontà di Dio è sconfiggere le cause della sofferenza, iniziando a cambiare per usare intelligenza e cuore necessari per trovare soluzioni giuste e sicure. La realtà dei corridoi umanitari nasce proprio dal cuore che non accetta la morte di uno solo dei nostri fratelli e dall’intelligenza che studia modi sicuri per tutti, che rassicurino tutti, i sommersi e i salvati. Sentiamo l’urgenza di impegnarci in questo, ma anche l’ammonizione di non scandalizzare nessuno di questi piccoli, i suoi piccoli, cioè farli cadere anche solo senza fare nulla, peggio ancora teorizzando di non aiutarli: “Io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli” (Mt 18,22).
La preghiera è efficace. Essa è sempre la prima opera del credente, anche se questo umilia il nostro protagonismo. Affidarci a Dio ci aiuta a capire, a scegliere, a vivere, a fare. La preghiera non è mai di parte. Per i cristiani tutti c’è solo una parte dove essi sono invitati a stare, perché è quella dove sta Gesù: dell’uomo amato da Lui e che Lui ci insegna a difendere. Non si baratta mai questo e non si può piegarlo per altri fini perché è lo stesso amore di Cristo che ce lo chiede. Difendere i sommersi, ricordarsi di loro e cercare di strapparli dalla dispersione non minaccia i salvati. Possiamo noi lasciare qualcuno in mano di lupi, gettarli di nuovo nell’abisso della violenza? Lo faremmo dei nostri fratelli più piccoli? Lo vorremmo per noi? Essi per di più sono il Corpus Domini per chi crede. Siamo deboli e poveri ma che come Gesù lottiamo e difendiamo la vita con tutto noi stessi, come delle madri che fanno di tutto per i loro figli. Non accettiamo che i sentimenti e le scelte di aiuto al prossimo siano sospettati. Se ci sono complicità si denunciano queste non i sentimenti, altrimenti diventa sospetto l’amore. La vita si salva sempre e si salva prima, non dopo; si salva comunque perché altrimenti si perde; si protegge per tutti, altrimenti si accetta la stessa logica che la uccide nel grembo materno oppure la spegne solo perché fragile. Se accettiamo che qualcuno sia sommerso, la debolezza diventa un pericolo per tutti. Quelli che ricordiamo sono stati strappati purtroppo dall’anonimato solo dopo la loro morte. Qualche tempo si volle recuperare uno dei barconi che è affondò negli anni scorsi, tomba di uomini che non furono salvati, proprio per dovere di umanità e per indicare quale è l’umanesimo che deve contraddistinguere l’Europa perché sia degna delle sue radici cristiane.  
38 mila vittime dei viaggi in mare e via terra verso l’Europa, dal 1990 ad oggi. Non ci possiamo abituare a questi numeri, che sono nomi, persone, storie. C’è urgenza di attivare le vie sicure dei corridoi umanitari e di coinvolgere l’Europa su questo progetto. In fondo è impressionante che da sola Sant’Egidio ha accordi con tanti paesi europei! Si può fare, allora! Facciamolo! Intelligenza è gestire i fenomeni, non subirli o pensare che si possa non fare nulla. Le tragedie del mare continuano. Nell’ultimo anno, da giugno 2018 ad oggi, le vittime sono state 2389, mentre nel primo semestre del 2019 sono già 904 i morti in mare, con un aumento delle donne e dei bambini che hanno perso la vita in traversate sempre più pericolose. A fronte di una diminuzione degli sbarchi, è infatti cresciuta la percentuale di morti e dispersi: se nel 2017, considerando solo il Mediterraneo Centrale, il tasso di mortalità di chi intraprendeva un “viaggio della speranza” era di 1 su 38, nel 2018 è stato di 1 su 14.
Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato ha scritto: “Una società che non è più capace di prendersi cura di chi è vulnerabile diventa disumana”. Per tutti. Davvero “non si tratta solo di migranti”.  “L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione”. Se ricordiamo i nomi dei sommersi forse salveremo qualcuno dal mare dell’indifferenza, vincendo la paura, che non distingue certo il loro nome, storia, umanità e li rende una categoria o un nemico. Se lo facciamo per quelli che non contano nulla per il mondo, lo faremo per tutti.  «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14, 27). “Non si tratta solo di migranti: si tratta anche delle nostre paure. Le cattiverie e le brutture del nostro tempo accrescono «il nostro timore verso gli “altri”, gli sconosciuti, gli emarginati, i forestieri. Si tratta di mettere gli ultimi al primo posto”. Non si tratta di migranti, ma del nostro prossimo. Così c’è speranza, che fa vivere e non morire. Bisogna vivere di speranza! Chi muore di speranza ce la affida perché non si perda più. Se si muore di speranza vuol dire che anche noi non ne abbiamo più. Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone, della nostra fede nel Signore che vuole che nessuno vada perduto. I loro nomi ci aiutino a sollevare tanti sommersi perché siano salvati e anche noi ci salviamo.

21/06/2019
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