Omelia per la presa di possesso del titolo di Sant’Egidio

Roma, Santa Maria in Trastevere

Ho appena preso possesso del titolo della Chiesa di Sant’Egidio. Nella strana sapienza di Dio – strana per uomini paurosi e orgogliosi – sapienza per la quale se si divide si moltiplica, si prende possesso solo amando e regalando quello che si riceve. Possiedo perché mi lascio amare e faccio di questo amore dono. E poi Sant’Egidio è una casa, dove sono a casa e che fa sentire a casa me, da tanto, e tutti, anche l’ultimo ad entrarvi, perché casa del Signore, familiare e attenta a ciascuno. Una casa, non una sede. Ringrazio il Vescovo di Roma che ha dato a me, figlio della Chiesa di Roma e della Comunità, la gioia di legarsi di nuovo, nel legame dell’amore, a questo luogo, insieme a tutta la Chiesa di Bologna che la grazia mi ha donato di servire, titolo perché storia di grazia, così personale e lunga. Attraverso di esso vivo il legame con la Chiesa tutta, di sempre e ovunque.

La sapienza della Chiesa, che è sempre quella dello Spirito, mi, e direi con un noi che credo faccia piacere a tutti, ci fa riscoprire sempre la gioia di esserne figli, di entrare in possesso tutti di questo titolo, di godere della stessa multiforme comunione, santa, perché dono suo. Un titolo è anche un luogo concreto, un indirizzo, un punto di unione fisico tra ciascuno di noi e una comunione tanto più larga, quella dei santi, che non possiamo certo delimitare con chiarezza.

Quando abbiamo provato a farlo i risultati sono sempre stati pericolosi. Siamo generati da quel Verbo che ci dona il potere di essere suoi, chiamati da Lui a riflettere la sua luce e fare conoscere la sua presenza. Per me è stata questa comunità che prese il nome da questo luogo e da questa casa-chiesa, un tutt’uno, proprio per indicare una definizione non astratta, ma incarnata nella città degli uomini. E anche perché ad esso fosse legata.

Dal 1630 casa di preghiera nello spirito di Santa Teresa, rimasta casa di preghiera e di fraternità evangelica con Dio e con il prossimo, fraternità in condizioni così diverse, mai esclusiva o selettiva, solo pochi anni dopo il Concilio Vaticano II. Tradiamo la Chiesa se la conserviamo come un museo, finendo per mondanizzarla, mentre è vera tradizione se viviamo il Vangelo nei tempi, riconoscendo i segni dei tempi, non secondo il mondo ma dentro il mondo e guardandolo con simpatia e compassione.

Sant’Egidio è piccola, per farci diventare grandi, per non smettere di crescere, per farci sentire l’amore preferenziale e personale di Dio che non spegne il lucignolo fumigante, per ricordarci anche che si è sempre piccolo gregge, lievito nell’orizzonte del mondo, dei piccoli che hanno sempre bisogno di capire e di lasciarsi amare. E’ piccola per aiutarci a capire che il Signore si lascia contenere anche dalla nostra miseria e ci rende grandi, perché esalta gli umili e abbassa i superbi.

E’ piccola perché sia sempre una casa, una ecclesia domestica e farci sentire a casa e da qui sentirsi a casa ovunque. Contiene, come tutte le case, una storia di persone e in questa possiamo vedere la grazia viva di Dio, il suo amore che si manifesta, si rivela e che contempliamo oggi in questa terza celebrazione dell’epifania di Dio che é la domenica del Battesimo di Gesù. E’ una storia tutta umana e tutta di Dio. Sant’Egidio è sempre stata con le porte aperte nel momento di maggiore intimità, quello della preghiera. Ancor adesso è sempre aperta per accogliere ed aiutare la preghiera individuale, che lì si collega così facilmente alla preghiera di tutti i fratelli e le sorelle sparse nel mondo che a loro volta spesso pregano sentendo l’amore della comunità madre.

Al centro della Chiesa di Sant’Egidio c’è la Parola e l’altare, una cosa sola, il Pane e la Parola espressione del Verbo che si ha fatto conoscere a noi che non abbiamo visto Dio, il suo volto. Sopra tutto incontriamo l’Icona del Volto di Cristo, il volto più bello, di solo amore, specchio vero e non deformante della nostra povera umanità, amata da Lui così com’è, senza apparenze. Guardandolo e lasciandoci guardare, smettiamo di scappare da Lui, perché è il Tu, il più caro e amico, che ci fa trovare noi stessi senza paura, misericordia e giustizia, perdono e speranza, centro di tutto. E’ l’amato del Padre nel quale anche noi siamo suoi.

Se lo guardiamo apre i nostri occhi; luce attraente che accende il cuore e lo riaccende dalla mediocrità, dai compromessi, dalla paura. Come avviene in ogni casa anche nella Chiesa di Sant’Egidio vi sono oggetti e immagini che hanno aiutato le nostre scelte e la nostra sempre troppo incerta, fede. Penso al Cristo senza braccia: non si sa nulla da dove viene, è anonimo, come tanta sofferenza, come tanti legni della croce e come tanti uomini crocifissi e resi impotenti dalla cattiveria e dall’indifferenza degli uomini. E’ il “Cristo dell’impotenza” che ci offre la vera onnipotenza, la forza capace di cambiare il mondo e di liberarlo da quella inquietante del male, che chiede le nostre braccia, che ci libera dal cercare la forza nell’affermazione di sé stessi. Desmond Tutu contemplandolo scrisse che “mostra come Dio conta su di noi per compiere la sua opera nel mondo”.

E infine i due altari, uno davanti all’altro e direi inseparabili: quello dei poveri, con le croci e il libro che conserva i nomi di quei tanti fratelli poveri che sono morti e che la grazia del Signore ci ha donato di servire. E’ come il libro della vita redenta dal sangue della croce. La sofferenza ha sempre casa nella comunità dei fratelli perché come Maria sotto la croce non va via, viene affidata al discepolo amato. Davanti a questo altare c’è quello che conserva le Bibbie in tante lingue, Pentecoste di Spirito che viene sempre dalla Parola che rende fertili i cuori e genera la comunità. Si realizza così quell’altra così icona sempre conservata a Sant’Egidio che è quella della pentecoste, di una comunità sempre sospesa tra Babele e il Regno, tra la confusione della città e la pienezza della casa di Davide, riunita intorno all’Eucarestia, con una porta dalla quale possiamo abbracciare l’altro, il fratello, il prossimo.

Come sempre nell’abbraccio non si sa mai chi abbraccia e chi è abbracciato. Ecco, cos’è il titolo di Sant’Egidio, che oggi scopriamo e riscopriamo e di cui ringraziamo il Signore, titolo che ci insegna a cercare l’unico titolo che conta e che ci libera dalla tentazione di vantarci di altri, anche perché è il più bello: essere suoi, cristiani, figli, servi. Con grande intuizione Giovanni Paolo II disse della Comunità, presente in numerosi paesi, che essa riconosce “in Roma, centro della cattolicità, il segno di comunione nell’unità che Cristo desidera per la sua Chiesa”. “Dove ci sono le Comunità di Sant’Egidio – anche non a Roma – sono sempre di Roma”.

La filoxenia, l’amore per lo straniero, il senso di ospitalità e di fratellanza universale si ritrova anche nell’impegno ecumenico e di dialogo, che sant’Egidio vive partecipando alla vocazione della Chiesa di Roma nella sua dimensione locale ed universale. La vostra piccola comunità dell’inizio non si è posta alcun confine, se non quelli della carità”. “Il mondo è oggi una terra d’angoscia. Gli uomini che vi abitano hanno paura gli uni degli altri. Da questa paura nascono l’ignoranza vicendevole, l’inimicizia e la violenza. Bisogna vincere questa paura con le sue tristi conseguenze. Il vostro impegno di fraternità universale tende a costruire rapporti di fiducia e di amicizia, che sradichino la paura e l’inimicizia”.

Ecco la pace. Gesù, battezzato nel Giordano, uscì dal fiume e, sopra di lui, si aprirono i cieli, da cui discese lo Spirito come colomba. L’aprirsi dei cieli è segno della fine dei tempi dell’ira: oggi i cieli sono chiusi, troppo chiusi, in tante parti del mondo. Tornano i tempi dell’ira e della guerra. Penso al Medio Oriente, che in modo particolare negli ultimi giorni è stato teatro di gravi tensioni. Ma penso anche ad altre parti del mondo, come la Libia, così vicina a noi e tanto ingiustamente travagliata.

E non voglio dimenticare l’amato Mozambico. Tante volte, da molti anni, da questa basilica, nel cuore di Roma, si è levata una preghiera per la pace. Anche oggi, vorrei che questa liturgia fosse un momento in cui si alza fiduciosa e insistente la nostra preghiera di pace al Signore, “luce delle nazioni”: si aprano i cieli della pace; si allontani la tempesta della guerra! Non vengano mai i giorni dell’ira! E anche la nostra voce si leva, umile e convinta dopo tante dolorose esperienze di guerre sempre inutili: non si può mettere in gioco la pace, cerchiamo sempre una via giusta per vivere insieme! Si aprano i cieli di pace!

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