Ordinazione Episcopale di Monsignor Ernesto Vecchi

Bologna, Cattedrale

All’elezione dei Dodici il Signore Gesù premette un appassionato colloquio col Padre, che gli prende lo spazio di una intera notte: “Se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione” (Lc 6,12). Ci piace pensare che in quella interminabile veglia non solo i Dodici abbiano preso l’attenzione della sua mente e la commozione del suo cuore, ma anche coloro che lungo i secoli sarebbero stati assunti al mistero apostolico.
Quella notte dunque il Sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza, in virtù del suo sguardo profetico, ha contemplato anche l’ora solenne che oggi qui noi stiamo vivendo e l’ha impreziosita con la sua preghiera.
E proprio quella implorazione del Figlio di Dio – che ha raggiunto e colmato di sÈ anche questa nostra celebrazione – ci dà il coraggio di procedere nel rito che stiamo compiendo: rito arcano ed eloquente, rito suggestivo e formidabile, rito che nella liturgia cattolica è il più alto che sia dato di compiere.
Su don Ernesto – su questo nostro fratello carissimo, che tutti ben conosciamo nella sua storia personale e nella sua concreta umanità – la grazia sacramentale scenderà come un fuoco: il suo essere sarà investito dell’energia dello Spirito, che lo sigillerà in una consacrazione indelebile e nuova, trasformandolo in una immagine oggettiva di Cristo, Capo e Sposo della Chiesa.

E’ un’esperienza santa e tremenda. Ma tu non devi temere: il Signore, che ti vuole, ti assicura anche il suo indefettibile aiuto. Non preoccuparti se ti senti piccolo e fragile; e non domandarti il perchÈ di questa designazione. Le scelte del Signore sono sempre imprevedibili e varie.
Nel collegio apostolico hanno trovato posto tanto Filippo e Andrea, uomini aperti alla mediazione e al dialogo (cf Gv 12,21-22), quanto Giacomo e Giovanni, gli impetuosi e un po’ intolleranti “figli del tuono” (cf Lc 9,54-55). E’ stata accolta non solo la fede rapida ed entusiasta di Pietro, ma anche quella ragionata e difficoltosa di Tommaso. Non pare, in ogni caso, che il Signore per questo ministero abbia preteso dei ‘superuomini’; e questo ci conforta tutti.

I prescelti però – quali che siano le loro vicende pregresse e il loro singolare temperamento – sono chiamati tutti a caratterizzarsi per l’identica adesione a Cristo, generosa, totale, irrevocabile; e devono lasciarsi trasformare dall’effusione pentecostale fin nelle loro più intime fibre.
Agli apostoli – e quindi anche ai vescovi che nella storia ne proseguono la missione – il Risorto riserva gli estremi suoi ammonimenti. Tra i quali ce n’è uno che è primario e fondante: “Predicate il Vangelo a ogni creatura” (cf Ma 16,15).
Al vescovo, come a Geremia, è detto: “Va’ da coloro cui ti manderò e annunzia ciò che ti ordinerò” (cf Ger 1,7). Che, nell’economia della Nuova Alleanza, vuol dire: Fa’ arrivare la tua voce a tutti quelli che puoi e fa’ conoscere il Vangelo della loro salvezza.

Mai come oggi è acuta ed estesa la necessità che il successore degli apostoli, testimone privilegiato di Cristo unico Salvatore, parli e parli chiaro.
I princìpi della ragione sempre più disattesi, le certezze di sempre rimesse in discussione anche da chi rivendica la sua appartenenza ecclesiale, i contenuti della fede reinterpretati spesso secondo gli imperativi della cultura mondana prevalente, la confusione disorientante delle troppe cattedre senza autorevolezza e senza verità, hanno creato un tal clima di relativismo e di scetticismo, che gli spiriti più semplici e schietti invocano dal vescovo che parli, anche quando non trovano i termini per esprimersi formalmente.
E gli dicono: “Non lasciarci nell’ambiguità e nella nebbia. Vogliamo sapere con certezza che cosa crede la Chiesa di Dio, per credere ancora con lei”.
Quello di insegnare ai fratelli tutto ciò che ci è stato rivelato dalla misericordia di Dio, non è un compito facile. E richiede che ci sia, tra le altre cose, il coraggio dell’animo e la consonanza della vita.
Nulla può scusare il vescovo dall’annuncio: non la coscienza della sua propria limitatezza, non il timore di perdere il consenso dei più, non le lusinghe o le minacce dei potenti e dei prepotenti, non la denigrazione o l’irrisione amplificate talvolta dai mezzi di comunicazione sociale.
Il nostro modello, doveroso anche se irraggiungibile, è Cristo che ha parlato senza riguardi per nessuno; che si è lasciato dire di avere un linguaggio inaccettabile e duro; che non ha mai modificato la parola di Dio sulla misura delle attese e delle preferenze umane, ma per amore ha proposto costantemente all’uomo di adeguarsi lui alla volontà e al disegno del Padre.

La “predicazione del Vangelo a ogni creatura” (cf Mc 16,15) trova poi la sua miglior efficacia e attinge la sua naturale forza persuasiva nel comportamento e nell’esistenza del predicatore.
Se il vescovo apparirà – almeno nel suo leale intendimento e nel suo sforzo sincero – icona somigliante dell’unico Maestro, anche la sua voce sarà percepita come la voce di Cristo e farà breccia nei cuori.
Secondo questo ideale – che dovrà sempre essere inseguito, anche se non potrà mai essere del tutto raggiunto – il vescovo cercherà di coniugare il sentimento inalienabile della sua dignità con il proposito di servire il popolo di Dio per amore. Appunto questo amore – questa “carità pastorale” – dovrà sempre ispirare ogni pur doveroso atto organizzativo o giuridico.

Più che imporre, persuada; più che giudicare, comprenda; più che dare ordini, dia fiducia, sorregga, stimoli iniziative.
Per concludere con una “figura”, possiamo dire che il vescovo, nella sua ansia di evangelizzare e di testimoniare la verità, dovrà rendere la sua vita simile al cero che non solo porta la fiamma sulla cima, in vista di tutti, ma si dona e si strugge nell’alimentarla, affinchÈ si diffonda nella nostra terra e tra i nostri contemporanei la luce pasquale di Cristo

13/09/1998
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