pasqua degli universitari

Bologna, Cattedrale

Il titolo di ‘maestro’ nei Vangeli viene dato a Gesù con molta frequenza, anche da chi, più che delle illuminazioni, a lui chiede dei benefici. Gesù non ha alcuna riserva verso questo titolo e lo accetta come dovuto: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono” (Gv 13,13). Anzi se lo rivendica in modo esclusivo: “Uno solo è il vostro maestro, il Cristo”(Mt 23,10).

Cristo è l’unico maestro prima di tutto per una ragione oggettiva: perché in lui si compendia il disegno eterno del Padre. Poi perché di questo disegno è il grande rivelatore.

Andando dunque alla sua scuola e meditando su tutto ciò che ha fatto e su tutto ciò che ha detto, noi cresciamo nella comprensione del “mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (Col 1,26); e possiamo “conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 1,19).

Avere a disposizione un maestro come il Signore Gesù è una fortuna di cui dobbiamo renderci conto, e una ragione di gioia, che non va mai dimenticata. Noi troviamo qui il fondamento delle nostre rasserenanti certezze, che, in mezzo al pullulare dei dubbi e delle insipienze, ci consentono di continuare a vivere da creature razionali.

“Uno solo è il vostro maestro”: non ci sono altri maestri che siano veramente tali.

Tutti gli altri insegnamenti o non conducono alla verità (e dunque non sono autentici insegnamenti) o conducono a verità esistenzialmente irrilevanti o, in ultima analisi, derivano la loro autorevolezza, magari inconsciamente, da lui. E questa unicità di magistero ci salva dalla ‘dissensio sententiarum’, cioè dalla contrastante e disorientante varietà delle opinioni correnti.

Questo è il maestro mandato proprio per noi, per farci uscire dallo scoraggiamento e dall’avvilimento che spesso insidiano i ricercatori della vera conoscenza, costretti a vivere immersi in una cultura scettica che sembra impegnata soprattutto ad annunciare il vuoto e l’assurdo. E questo ci scampa dalla ‘desperatio inveniendi verum’.

Ma non basta avere il Maestro giusto. Bisogna anche andare alla sua scuola. “Ascoltatelo!” (cfr Mt 12,5), ci dice la voce del padre. Mettersi in posizione di ascolto davanti a Gesù è ciò che ci proponiamo di fare in questi giorni, ed è ciò che vogliamo fare – con più impegno, più assiduamente, più a lungo – nella nostra vita.

Che cosa ci insegna Cristo? Ci insegna tutto, tanto che, dopo la sua venuta nel mondo, la rivelazione di Dio si è conclusa, si è conclusa non per un’arbitraria volontà del Padre che ha deciso di ammutolirsi, ma perché, avendo mandato il figlio nel quale l’intero suo disegno si compendia, non aveva più niente da dirci per questo ordine di provvidenza.

Se però ci domandiamo: quali sono gli argomenti che più insistentemente di ogni altro sono presenti nei discorsi del Signore Gesù, non ci sono dubbi: sono il Padre e il Regno. Non c’è pagina di Vangelo dove l’uno o l’altro o tutti e due non facciano capolino.

Ci limitiamo qui a raccogliere solo l’insegnamento sul Padre.

Il Padre.

Dalla prima sua parola che ci è stata riferita (“Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Lc 2,49) fino alla suprema offerta della croce (“Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” Lc 23 46) Gesù parla continuamente di Dio e a Dio sempre qualificandolo ‘Padre’. Questa è l’esperienza gioiosa fondamentale della sua vita interiore di uomo il vertice della sua conoscenza creata: “Io ti ho conosciuto” (Gv 17,25). Ed egli è anche ben consapevole che la sua è un esperienza unica e una conoscenza imparagonabile: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio” (Mt 11,27).

Da questa intuizione primigenia – l’intuizione, cioè, che Dio ci è Padre – deduce la possibilità per l’uomo di guardare il mondo e di affrontare la vita senza affanni e con inalterabile serenità (cfr Mt 6,25-34). Dalla paternità di Dio nasce il convincimento della inesauribile propensione al perdono, propria del Creatore, che lo rende sempre pronto ad abbracciare i figli sviati che ritornano a lui pentiti, qualunque cosa abbiano fatto (cfr la parabola del Figlio prodigo, Lc 15,11-32).

E Gesù riesce a parlare in termini così appassionati e persuasivi del Padre, perché il Padre è il suo più assiduo e ricercato interlocutore, al quale riserva uno spazio esclusivo anche nei suoi giorni più affaccendati.

Questo insegnamento di Gesù rimane di spiccata attualità. Anche oggi la questione prima e più decisiva per l’umanità è quella di riscoprire la Paternità di Dio.

Di solito si dice – e c’è moltissima verità in questa affermazione – che la difficoltà più grave è di accettare la Chiesa: Cristo sì, Chiesa no, sarebbe la posizione di molti.

A un secondo livello, si nota – e anche qui c’è molto di vero – che è più facile trovare chi crede in Dio, che non trovare chi crede in Gesù di Nazaret e nella verità assoluta del suo Vangelo.

Io però non ho mai trovato nessuno, almeno nella popolazione di tradizione cattolica, che, rifiutando la Chiesa, poi accolga Gesù Cristo per quello che è; cioè come Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso, risorto, oggi vivo. E non ho mai trovato nessuno che, rifiutando Cristo nella sua verità creda poi nel Padre; cioè, non in un Dio indifferente e lontano, ma nel Dio che c’è, che interviene nella nostra vicenda, che decide lui che cosa è bene e che cosa è male, che è offeso nel suo amore dalle nostre colpe, che ci ha assegnato come destino la sua stessa casa.

Mi sono fatto perciò l’idea che la cosa più ardua e più necessaria per l’uomo di oggi è appunto quella di ritrovare il Padre. Chi arriva al Padre, presto o tardi arriva a colui che il Padre ha inviato per la nostra salvezza, e chi arriva a Cristo Dio e Salvatore, presto o tardi arriva a capire la bellezza della sua Chiesa.

Per un’umanità “fraterna”

Solo ritrovando il Padre (e poi accogliendo il suo progetto centrato sulla croce) si può accettare il mondo stravolto e crudele in cui ci è capitato di vivere.

Il mondo – che pure, se correttamente esaminato sotto il profilo filosofico rimanda necessariamente a un Creatore – troppe volte ci appare come una smentita all’esistenza di Dio, se è guardato nelle sue condizioni esistenziali.

Solo la fede che il Creatore è anche un Padre e ha sull’uomo un suo disegno incomprensibile e strano, ma in ogni caso ispirato dall’amore – un disegno in cui c’è posto per il peccato, per il dolore, per la sofferenza redentrice del Figlio di Dio, per il mistero della croce – riesce a farmi riconnettere il mondo alla sua Causa prima e a farmi ritenere che esso non sia un’assurdità. E dunque solo l’idea del Padre mi consente di convincermi che esiste una superiore ragionevolezza, cioè mi consente di esistere da uomo.

Va detto inoltre che solo ritrovando il Padre gli uomini possono sperare di convivere senza che il loro egoismo porti l’umanità all’autodistruzione.

Solovëv ha scritto da qualche parte che tutti i socialismi del suo secolo erano basati su questo curioso sillogismo: tutti gli uomini derivano dalla scimmia, dunque dobbiamo amarci tutti come fratelli. Credo che il giudizio di Solovëv colpisca nel segno: dalla fine del secolo XVIII è in atto il tentativo di salvare e attuare la conclusione cristiana, sostituendo alle premesse cristiane delle premesse scientiste. Il secolo XX – che è stato il secolo dei più vasti e ripetuti massacri tra gli uomini e delle società politiche più disumane – si è tragicamente incaricato del compito di dimostrare che il ragionamento non sta in piedi.

Se vogliamo vivere da fratelli e salvarci, dobbiamo ripartire dal Padre. E questo vale anche per la nostra vita spirituale. Gesù ci insegna che la prima, la più alta, la più necessaria delle devozioni è la devozione al Padre. Il senso di Dio e della sua paternità non può mai essere sottinteso nella nostra vita religiosa, ma deve offrire la premessa esplicita per ogni altro impegno e per ogni altro amore.

23/03/1999
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