solennità di San Giuseppe, messa per gli anziani della diocesi

Bologna, Cattedrale

Quando il sole della vita si abbassa sull’orizzonte, quando le ombre degli anni trascorsi si allungano, quando i tumulti del giorno si placano nella quiete della sera, allora è il tempo più propizio perché l’uomo ascolti gli interrogativi che salgono dal profondo del suo cuore: “A che serve questa vita che finisce? Che mi resterà del mio lavorare, del mio soffrire, del mio amare? Che esperienza mi attende di là dal varco oscuro a cui ineluttabilmente mi avvicino?”.

A queste domande ineludibili solo Cristo ha dato le risposte certe e vere; le risposte senza le quali non è possibile invecchiare serenamente e in pace.

Perciò, a chi si è ormai molto inoltrato nel cammino dell’esistenza – e scorge non più lontanissimo il suo traguardo immancabile – l’atteggiamento interiore più consolante e prezioso è quello di accogliere le parole di verità che ci vengono dal Signore Gesù. Vale a dire, la cosa più necessaria per l’anziano e la fede.

È allora da ritenersi occasione provvidenziale e felice che questo nostro incontro – che in qualche modo inaugura una nuova attenzione pastorale della Chiesa di Bologna per la così detta terza età – avvenga nella festa di San Giuseppe, che la liturgia odierna presenta come l’uomo che in modo straordinario ed eminente ha saputo credere; cioè ha saputo affidarsi totalmente al disegno di Dio.

Le pagine bibliche che ci sono state oggi proposte sono tutte appunto una esaltazione della fede:

– della fede di Abramo, che “ebbe fede sperando contro ogni speranza… e gli fu attribuita a giustizia” (Cf Rm 4,18.22);

– della fede di Davide, che si sentì fare da Dio una promessa ben presto smentita dai fatti (“la tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre”), ma che si sarebbe avverata a un livello più alto in Gesù, il figlio di Davide, che è in eterno il Signore dell’universo;

– della fede di Giuseppe, la più grande di tutte, perché a lui si rivela, mediante l’apparizione in sogno dell’angelo, la decisione divina più misteriosa e più sconcertante; e cioè l’incarnazione del Figlio di Dio e la sua nascita verginale.

Questa celebrazione, prima di ogni altra grazia, intende quindi implorare dal Signore per tutti coloro che sono avanzati negli anni – dovunque siano, in qualunque condizione di salute e di spirito si ritrovino – il dono di una fede più robusta, più viva, più capace di ispirare una vitalità ancora feconda di bene.

In questa prospettiva di riacquistata docilità al Vangelo di Cristo, l’augurio, che faccio prima di tutto a me stesso e poi a tutti i miei compagni di anzianità, è quello che abbiamo a essere nella comunità cristiana e nella intera umanità dispensatori di sapienza, testimoni di speranza, operatori di carità.

Dobbiamo essere dispensatori di sapienza.

La sapienza è un frutto che matura preferibilmente nell’autunno della vita, non senza però una costante coltivazione; matura cioè, con l’abitudine a vivere con interiorità, ad amare con disinteresse, a giudicare con oggettività ogni idea e ogni fatto, a riflettere con animo retto su ciò che è bene e su ciò che è male.

Allora è possibile che le nostre parole diventino irradianti di verità e saporose, diventino semi di vita nei solchi delle coscienze dei giovani: illuminatrici nel dubbio di chi non sa come orientarsi; ammonitrici davanti alla baldanza di incauti comportamenti; confortatrici nell’ora della pena; esortatrici di fedeltà ai valori e ai giusti principi; ispiratrici di comprensione e di perdono, di generosità verso i fratelli.

Dobbiamo anche essere testimoni di speranza.

Noi non possiamo certo nasconderci che il fiume dei nostri giorni si avvicina alla foce. Ma i convincimenti che ci vengono dall’adesione agli insegnamenti dell’unico vero Maestro ci dicono che, se è vero che questa vita transitoria è un bene di cui dobbiamo ringraziare il Creatore, la sua fine ci recherà un bene ancora più grande.

Nella visione cristiana, il più bello deve ancora venire. Come dice san Paolo, quando verrà disfatta l’abitazione terrena di questo nostro corpo, “riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani d’uomo, nei cieli” (Cf 2 Cor 5,1).

Saper aspettare con fiducia l’alba del mattino eterno, mentre avvertiamo di affondare nel crepuscolo della sera; questa è la testimonianza di cui ha più bisogno il mondo attuale che corre il rischio di soffocare e di intristirsi in una secolarizzazione opaca e disperata.

Essere araldi della speranza cristiana è la missione che oggi la Chiesa ci affida.

Infine siamo chiamati a essere operatori di carità.

I nostri ultimi anni non devono essere considerati uno spazio inutile e vuoto tra l’età attiva e la morte, bensì come la più importante e più decisiva fase di maturazione della persona.

In virtù del nostro battesimo, noi non siamo soltanto i destinatari dell’azione pastorale, ma anche i soggetti. Il maggior tempo a disposizione, la molteplice esperienza di vita, in certi casi anche l’ansia di riscattare il tempo non impiegato nel migliore dei modi, possono fare dell’anziano un valido collaboratore di ogni intrapresa ecclesiale e di ogni iniziativa di attenzione e di soccorso al prossimo.

Fin che le forze lo consentiranno, ci preoccuperemo di renderci utili, e non soltanto nell’ambito della cerchia familiare ma anche in quello della comunità cristiana.

La Chiesa si attende che siano una larga schiera gli anziani che sappiano offrire all’edificazione del Regno di Dio e al dilatarsi tra gli uomini dell’amore per Cristo, unico Salvatore e Signore misericordioso, gli anni della loro accresciuta saggezza e l’ultima loro stagione operosa. Una consolante certezza li sosterrà: si guarderanno sì indietro pensosamente per rammaricarsi di qualche errore del passato, ma più ancora guarderanno avanti con gioia nell’attesa della beata speranza.

19/03/1999
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