presentazione del volume Le avventure di Pinocchio

Bologna,Palazzo del Podestà

Credo di dover dare conto succintamente del mio contributo alla straordinaria edizione di Pinocchio che oggi viene presentata. Il che mi costringe – e me ne scuso – a parlare di me e della vicenda dei miei rapporti con il capolavoro di Carlo Lorenzini.

I

Dopo le ovvie e naturali letture infantili, ho cominciato a interrogarmi e a riflettere su questo libro fin dal 1946, durante l’ultimo anno del mio liceo. E’ stata una riflessione che si è protratta nel tempo e si è conclusa nel 1977 con la pubblicazione di un “commento teologico” dal titolo inconsueto: Contro Maestro Ciliegia.
L’intento di quelle pagine era di comunicare quella che anche per me era stata la “scoperta” inattesa di quella lunga meditazione; e cioè la stupefacente analogia (e, più ancora, la piena concordanza) tra la struttura del racconto collodiano e la struttura della visione cristiana della realtà, con il suo annuncio di redenzione umana e con la sua “storia di salvezza”.

L’argomentazione in Contro Maestro Ciliegia si sviluppava totalmente ed esclusivamente sul piano oggettivo: vale a dire, la mia attenzione si portava unicamente sul libro che mi era dato di leggere, senza alcuna preoccupazione per quel che aveva voluto dire il Collodi. Dichiaravo anzi con giovanile improntitudine che il pensiero dell’autore e i suoi espliciti intendimenti non mi interessavano affatto. Confessavo addirittura di essere stato ammaliato e divertito dal “gioco del Padre che si compiace di caricare del suo messaggio le parole più disparate, anche quelle che a un primo esame sembrerebbero disadatte e lontane” (p. 223). Che se il Lorenzini fosse stato anche ateo – scrivevo paradossalmente – “il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché sarebbe apparso più scintillante l’umorismo di Dio” (ib.).

Non c’era dunque da parte mia nessuna prevaricazione nei confronti della “pinocchiologia”, disciplina che rispettavo e accettavo nei suoi risultati senza alcuna contestazione. Il solo interrogativo che mi proponevo era quello della reale corrispondenza (a prescindere dalla mentalità e dalle persuasioni dell’estensore) tra la fiaba in esame e la verità rivelata. Ma questa – asserivo, e mi pare anche adesso un asserto metodologico incontestabile – è una questione “teologica”, sulla quale gli studiosi della vita e dell’opera del Collodi, i critici letterari e gli indagatori della società ottocentesca non dovrebbero aver niente da dire.

II

Ma dopo la pubblicazione di Contro Maestro Ciliegia sono stato punto anch’io dalla curiosità di conoscere qualcosa di più dell’autore di Pinocchio. Ho dunque cercato di raccogliere e di vagliare tutte le notizie sul Collodi, che avevo la ventura di trovare. E devo dire di essere stato progressivamente incantato dal suo originale temperamento nonché dalla sua ricca ed estrosa umanità.
L’introduzione che, a mia firma, è contenuta in questo splendido volume ideato e realizzato da Art’e’ può essere considerato appunto l’approdo di questa seconda fase della mia relazione con Pinocchio.

l. In questa introduzione prima di tutto propongo esplicitamente Pinocchio come un enigma che non ci si deve stancare di indagare.
Pinocchio possiede il dono e il fascino – oltre che di una lingua al tempo stesso vivace e asciutta, sapida ed essenziale – anche e soprattutto di una fantasia inesausta, che sa immaginare gli accadimenti più inattesi e disparati, ordinandoli tuttavia entro una vicenda rigorosamente scandita fino alla sua più logica conclusione. Così si motiva e giustifica la sua fortuna.

Però non del tutto. I meriti letterari sono innegabili e sostanziosi, ma non dànno una spiegazione adeguata e totalmente persuasiva della notorietà senza confini di questa insolita fiaba né del successo ottenuto anche in aree culturali remotissime dalla nostra. Di fatto la narrativa italiana non conosce, dopo l’unificazione politica della nazione, un’opera che per la diffusione e il favore incontrato sia paragonabile a questa. E’ naturale allora e legittimo domandarsi la “ragione sufficiente” del singolare fenomeno.

L’arcano si fa più intrigante, se si considera l’origine di questo libro; un’origine che si sarebbe tentati di definire casuale: pubblicato a rate, irregolarmente, di malavoglia, sul Giornale dei bambini, tra il 1880 e il 1883.
2. A gettare qualche luce su questo mistero e ad appurare l’origine del “miracolo” di Pinocchio è, a mio avviso, indispensabile esplorare a fondo tre “svolte” o tre “crisi” che segnano la vicenda interiore del Lorenzini, a cominciare dal suo ritorno a Firenze, dopo aver partecipato alla prima e alla seconda guerra d’indipendenza.

La prima “svolta” si colloca nel 1860; ed è una crisi al tempo stesso politica e spirituale.
Proprio nel 1860 il Collodi arriva a scrivere su La Nazione (ed è, nella sua perentorietà, una confessione sorprendente): “Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall’idea di Mazzini fino all’Ippogrifo dell’Ariosto… Che il cielo mi perdoni, ma l’anarchia regna nello Zodiaco”.
Se la prima parte della frase ci dice che ormai si è insinuato nella coscienza del reduce dalle patrie battaglie il disincanto e lo scetticismo politico, la seconda ci rivela un’inquietudine che pare raggiungere una dimensione cosmica e, per così dire, metafisica.

Non era più solo la visione mazziniana a essergli estranea: un po’ tutte le concezioni, che pure avevano ammaliato la sua giovinezza, adesso non riescono più a persuaderlo. Beninteso, non rinnega niente del suo passato, non diventa un reazionario; ma i risultati del sommovimento e della grande impresa, cui aveva fattivamente contribuito, non gli piacciono. Gli antichi ideali non sono ripudiati, ma non è soddisfatto della forma in cui si sono inverati.

La crisi di Carlo Lorenzini trova poi uno sbocco impreveduto (ed è la seconda svolta) nella sua decisione di rivolgersi non più al mondo deludente degli adulti, ma a quello dei piccoli.
L’occasione iniziale fu la proposta degli editori Felice e Alessandro Paggi di affidare a lui la traduzione della raccolta di fiabe del secentista Charles Perrault (Contes de ma mère l’Oye), pubblicata nel 1876 con il titolo I racconti delle fate. Dopo di allora il Lorenzini compone tutta una serie di libri per ragazzi.

Mette conto di valutare senza superficialità questo “cambio di destinatari”.
Da pubblicista, animatore e collaboratore di vari giornali, egli si era rivolto soprattutto alla classe di ‘quelli che contano’. Ma a un certo punto il suo pessimismo – o meglio il pessimismo del suo realismo – lo persuade dell’inutilità di questo impegno, e lo decide di rivolgersi ad altri interlocutori: di spendere cioè il suo ingegno e le sue fatiche non più per gli adulti – non più per i “personaggi”, importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente sclerotizzati senza rimedio – bensì per i ragazzi che possiedono un’umanità ancora nativamente fresca e aperta alla ragionevolezza e alla verità.

La terza “svolta” – ed è una vera e propria “conversione” culturale, su cui finora non ci si è soffermati abbastanza – è intervenuta proprio nel corso della stesura del suo capolavoro; una stesura che, come abbiamo visto, appare non poco stentata e accidentata. Questa terza svolta” si colloca, o almeno comincia a delinearsi, tra il 27 ottobre 1881 (data della puntata con la “impiccagione di Pinocchio) e il 16 febbraio 1882 (data della ripresa del racconto con la “risurrezione” dell’inverosimile “eroe”).

La storia di un burattino (questo era il titolo primitivo dei primi quindici capitoli dell’opera che abbiamo tra mano) è ciò che era stato inteso e progettato in partenza. Doveva costituire un racconto chiuso in se stesso: difatti dopo il quindicesimo capitolo c’è inequivocabilmente la parola “fine”. Per il Collodi, con la morte di Pinocchio la fiaba era arrivata al suo termine.

Qui qualche osservazione si impone. Niente ne La storia di un burattino va a buon fine: né la costruzione del pupazzo di legno, che delude subito il suo creatore; né gli sforzi educativi del Grillo-parlante; né la generosità di Mangiafoco, che è premessa e causa involontaria dei guai successivi del beneficato. Tra l’altro – pur se il testo non lo dice – i furfanti, una volta impiccato Pinocchio, si sarebbero ovviamente impadroniti delle monete d’oro e sarebbero risultati in assoluto vincenti.

Nella redazione ultima e definitiva de Le avventure di Pinocchio tutto invece cambia, anzi tutto semplicemente si rovescia: la “storia” si illumina di significato e di intenzionalità. La vicenda dell’umanità e dei singoli – raffigurata e simboleggiata dalle multiformi peripezie del burattino – è ideata in modo organico nei suoi passaggi essenziali: il suo avvio, il suo dispiegarsi, il suo arrivare alla conclusione; una conclusione che retrospettivamente rischiara e finalizza ogni antefatto.

La storia dell’uomo non appare più (come nella prima parte), per usare le parole di Shakespeare, “la favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth V,5): al contrario, essa diventa un percorso ben finalizzato, con un senso, un progetto, un traguardo.
Come si vede, il Collodi tra La storia di un burattino e Le avventure di Pinocchio ha cambiato radicalmente la prospettiva. Ed è un cambiamento non puramente redazionale o letterario: è sostanziale e determina il significato di tutto.

Non mancava di originalità la primitiva idea del Lorenzini di porre termine alle peripezie del suo insolito protagonista con una morte per impiccagione; una morte descritta drammaticamente e addirittura con qualche evidente allusione all’agonia di Cristo in croce: una sofferenza di “tre ore” e un estremo appello al padre (“Oh, babbo mio! … se tu fossi qui!…”).

Era indubbiamente una finale tragica e inquietante, ma aveva anche una sua suggestiva poeticità: il burattino di legno toccava il vertice dell’umanizzazione nella condivisione con noi del mistero della morte, sicché sembra qui alluso e implicito il convincimento che appunto la morte sia il senso e lo scopo dell’intera realtà, e in particolare dell’uomo.

Finale poetica, e tuttavia assurda: assurda nell’economia della fiaba, perché assegnava una morte umana a una realtà legnosa e quindi subumana; più ancora, assurda nel messaggio proposto, perché indicava il nulla come il solo desolato traguardo dell’esistenza. E’ la stessa lucida assurdità che ritroviamo in Leopardi: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono” (Cantico del gallo silvestre).

Messaggio assurdo e messaggio disperato. Se l’invocazione del morente rimane senza risposta – se il padre resta latitante e muto – la disperazione è l’unica sorte che ci è riservata.
Ribaltando la primitiva impostazione, il Collodi scampa alla sorte di essere l’incauto profeta dell’irrazionalità e dell’angoscia, e diventa il vate non dell’assurdo ma del “mistero” salvifico, non della disperazione ma della speranza. Ed è appunto per questo che egli trova ascolto negli uomini di tutti gli angoli della terra.

L’ipotesi che ci pare insomma la più plausibile e illuminante è che, proponendosi di entrare in profonda comunione con i suoi interlocutori – con i ragazzi d’Italia e con la loro ” cultura” nativa – fino a cogliere per un felicissimo intuito l’antico patrimonio ideale depositato e racchiuso nelle loro intatte coscienze, Carlo Lorenzini finisca anche col ritrovare (di là dalle ideologie successivamente sopraggiunte) le persuasioni implicite e indiscusse della sua prima età. E, calandole con l’istinto infallibile dell’autentico poeta nella fantastica invenzione di una deliziosa storia surreale egli diventa inopinatamente il cantore di verità sostanziali ed eterne.

Forse appunto nell’individuazione di tali verità “sostanziali ed eterne” – è la mia proposta e il mio auspicio – il “problema collodiano” potrà ricevere qualche luce.

20/06/2002
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