Prima Messa da Cardinale a Roma

Roma - Santa Maria in Trastevere

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Mi sono sempre piaciute le feste e penso che Dio è il più grande organizzatore di feste – comprese quelle “a sorpresa” –  e vuole che siano per tutti e che non finiscano. Sento, ed è una grande gioia per me, che ognuno di noi ha un motivo questa sera per essere contento per quel legame che ci unisce tutti, sacramento di Dio: l’amicizia. Lui è il miglior amico degli uomini e seguirlo, prenderlo sul serio ci rende amici, ci fa credere nell’amicizia oltre le delusioni, ci libera dal cuore che si rattrappisce o pensa di stare bene senza amare il prossimo. Qui ci sono tanti fili di amicizia che sento come il cento volte tanto (forse il mille tanto! Essendo un po’ testone Dio ha voluto essere del tutto chiaro per farmi capire e vincere la diffidenza), di cui gode ognuno di noi. E’ una festa per tutti. “Una gioia condivisa con molti è più abbondante anche per ciascuno. Ci si riscalda e accende a vicenda”. E’ festa di comunione. La Chiesa ho imparato ad amarla come una casa dove tutto ciò che è mio è tuo, l’ideale degli Atti degli Apostoli che tanto appassionavano i primi anni del cammino con la Comunità (a dire il vero anche dopo): “Avevano un cuore solo e un’anima sola”. Vivere il Vangelo significa potersi amare tanto, perché la Chiesa è soprattutto famiglia, dove impariamo a pensarci una cosa sola come chi si ama. E’ un legame che c’è comunque, anche a distanza, che si trasforma e che quando si manifesta cambia tutta la nostra vita. E’ il sacramento dell’amicizia che mi ha accompagnato nelle varie tappe, penso da Sant’Egidio alle Parrocchie di Santa Maria, di Torre Angela, a tante comunità e parrocchie del centro storico e poi in questi anni intensi con la Chiesa di Bologna. Tutti incontri che sono stati angeli del Signore. Alcuni, tanti, tantissimi in realtà, di questi angeli celebrano questa festa con noi dal cielo e li sento vicini perché l’amore non finisce e la fede ci aiuta a contemplare quello che altrimenti resta oscuro.
La mia vita, ma direi la vita, è sempre composta da tanti pezzi che ci hanno fatto e che sono parte di me. Oggi posso vedere, ma credo che la vediamo tutti, la gioia di essere insieme un pezzo della nostra vita comune, esattamente il contrario dell’individualismo. Il riconoscimento di Papa Francesco è per ognuno di questi pezzi, è per questo noi che è la comunione. San Francesco per descrivere il frate perfetto non ne indica uno che abbia tutto, ma descrive le qualità di diversi frati, per cui perfetto in realtà è la comunità che mette assieme tutti i vari doni (la fede di Bernardo, la semplicità di Leone, la cortesia di Angelo, il buon senso di Masseo, la contemplazione di Egidio, la preghiera di Rufino, che pregava anche dormendo, la pazienza di Ginepro, la carità di Ruggero, la santa inquietudine di Lucido). Potrei dire qualcosa di tutti voi che è il motivo per cui ognuno è un dono che compone questo corpo. La comunione ci fa cercare nell’altro la cosa unica, sua, la valorizza, la fa crescere. Gesù, che è il vero ed unico cardine, unisce ognuno di noi a Lui e anche tutti noi tra di noi. Più siamo incardinati in Lui più lo saremo con i fratelli.  Ecco perché la celebrazione di oggi è gioia. La nostra è una Chiesa comunità, forte dell’amicizia e dell’amore gratuito che il Vangelo genera tra gli uomini, geografia umana di persone e storie concrete. Il cardine certo è Cristo e con lui quel Pietro indicato come roccia sulla quale è costruita la sua chiesa. Il suo successore presiede questa comunione, alla quale si obbedisce, non ci si sottrae o peggio si offende. Vorrei che da questo mio e quindi nostro riconoscimento possiamo comprendere tutti e di più, conoscere di nuovo, capire il valore che viviamo, che siamo e che ci è affidato, grazia della grandezza di Dio che solleva l’umile e abbatte il superbo, che compie cose grandi con la nostra pochezza. Riconosciamo questi tanti doni per non avere paura, per donare con più generosità il tanto che abbiamo ricevuto, per capirlo facendolo. Non ci facciamo intimidire dal male che vuole spegnere l’amore e renderlo insipido, farci credere che non vale la pena, che non abbiamo niente da dare o che donare sia perdere, mettendo in contraddizione il personale stare bene con la costruzione della famiglia di Dio. Papa Giovanni vedeva la Chiesa come una fontana, dove chi ha sete si ferma, perché è acqua offerta a tutti, sempre e facilmente accessibile perché non è per selezionati iniziati, per i dotti, severi e arcigni difensori di verità senz’amore e quindi invivibili e distanti. La Chiesa è una madre e per questo è maestra, non viceversa. E’ una madre che ama con benevola e infinita misericordia, gioiosa, semplice; prova simpatia e quindi è attraente; non ha paura dell’uomo e nemmeno del suo nemico, il male, perché ha l’amore che è più forte della morte.
Infine una considerazione sulla porpora. Il vangelo parla di due. Quella del ricco epulone, accompagnata dal lino finissimo e legata alla tavola imbandita. Insomma la mondanità, la porpora fine a se stessa, che diventa le belle vesti dei farisei o l’esibizione stolta di chi si crede ricco. L’altra porpora è quella di cui viene vestito Gesù prima di essere crocifisso (Mc. 15,17), per schernirlo, caricatura del re che diceva di essere, ultima sua umiliazione, dimostrazione della sconfitta sua e dei suoi sogni. Il povero Lazzaro mi e ci strappa dalla mondanità e la porpora mi deve avvicinare alle tante sofferenze di uomini e donne crocifissi, umiliati, scherniti dalla forza del mondo folle che non sa amare la fragilità. Papa Francesco mi ha scritto, parlando della sua scelta: “Agli occhi del mondo questa è generalmente intesa come una promozione, un’ascesa nella scala delle funzioni o l’entrare a fare parte di una certa nobiltà corporativa. Una visione di questo tipo non intende, anzi, confonde il vero significato del cardinalato. Pensando a ciascuno di voi mi è venuta al cuore una parola: compassione. Che questo nuovo passaggio della tua vita ti faccia crescere nella capacità di compassione, per imitare di più Gesù, compassione verso tutti gli uomini e le donne che, vittime e schiavi di tanti mali, guardano e aspettano un gesto di tenerezza da parte di noi che crediamo nel Signore”. Ecco, cardinale è uomo della compassione, quella di Gesù che guarda la folla e non si spaventa ma ne ebbe compassione.
Ogni cardinale ha un titolo, perché in antichità erano i parroci di Roma. Vuol dire l’universalità ma anche il legame fisico con la Chiesa di Roma che preside nella comunione. La comunione non è un simbolo, ma una storia di uomini. Il titolo che il Papa, vescovo di Roma, mi ha voluto attribuire, e ne sono fiero e intimorito, è quello di Sant’Egidio. L’universalità l’abbiamo imparata proprio dalla piccola Chiesa aperta sul mondo degli uomini, sul villaggio globale, attenta al rione e a tutte le latitudini. La preghiera e la Parola ci hanno indicato che l’unico confine è quello dell’amore, notoriamente senza confini. Non viviamo perduti nelle navigazioni digitali senza volto e storia, ma si è universali amando il piccolo e il mondo, quel fratello, il fratello, non un fratello e il mondo con intelligenza e umanità, con la cultura che viene dalla conoscenza della sofferenza e da esperti di umanità, trovandosi a casa dappertutto perché tutto è nostro. Ecco Sant’Egidio, con la sua porta piccola, ma che apre sul mondo. E’ così per tutte le comunità. Come il granellino di senape. Allora dobbiamo avere meno paura, adesso che abbiamo visto come – nonostante la nostra poca fede, gli evidenti limiti personali, parlo per me, il tempo e le occasioni perse, la mediocrità che pensavo mi giustificasse – la fede può fare crescere alberi grandi e spostare le montagne. Niente è impossibile a chi crede. E tutto è possibile. E il mondo ha bisogno di credenti, che vedono le messi biondeggiare anche se mancano quattro mesi alla mietitura.
Si dice che il cardinale è principe della chiesa. La vera nobiltà nella Chiesa è, però, il contrario del mondo. Principesca è solo l’amicizia! Primi sono i poveri. E in realtà ogni cristiano, proprio perché cristiano, è sempre un gran signore perché rende ricchi gli altri con l’amore che gli ha affidato Gesù. Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. L’invito dell’apostolo lo sento stasera diretto a me ma certo a tutti noi. Non vergogniamoci dunque di dare testimonianza al Signore nostro ed aiutiamoci a farlo, aiutatemi a farlo, incoraggiandoci a vicenda, con la forza di Dio, servi inutili, presi a giornata dalla grazia del Padre. Siamo servi, lo siamo sempre, e inutili perché così siamo liberi dalla piccineria delle ricompense, dei meriti. Con questa consapevolezza chiedo di continuare a servire e amare la chiesa, la sua comunione da difendere e accrescere, la città degli uomini a cominciare dai poveri. La gioia del Signore è e sarà la nostra forza.

05/10/2019
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