S. Messa – XXX anniversario della strage alla stazione di Bologna

Bologna, Chiesa di San Benedetto

(Is 25, 6-9; Salmo 22; Gv 14, 1-6)

Il Salmo 90 si rivolge a Dio con queste parole «gli anni della nostra vita passano presto e quasi tutti sono fatica e dolore. Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore sapiente».  Il salmista mette in evidenza la fugacità del tempo e chiede al Signore di saper valutare bene la vita umana, specialmente nei suoi lati negativi, per trarne una lezione. Anche noi ci uniamo alla preghiera del salmista, mentre celebriamo, nella fede, il XXX anniversario dell’abominevole strage del 2 agosto 1980.

Bologna continua a fare memoria di un evento rimasto in gran parte avvolto nella nebbia delle inquietanti trame eversive. La dialettica sociale, che puntualmente anima il dibattito cittadino e nazionale, rimane sterile, perché prigioniera dei preconcetti di parte e non riesce – e talvolta non vuole – fare fronte comune per affiancare, in serenità di spirito, quanti hanno il compito istituzionale di cercare la verità. Questa ricerca va condotta con tutti gli strumenti disponibili e senza intoppi burocratici, per dare un nome e un volto a quanti si sono macchiati, davanti a Dio e agli uomini, di un delitto tanto infame e degradante.

L’oscuramento della verità e il libero vagare delle ipotesi favorisce il permanere nella compagine sociale di forze oscure e brutali, pronte – come Caino – a spargere il sangue innocente, che ancora «grida dal suolo verso Dio» (Cf. Gn 4, 10). Se non si corre ai ripari, la discendenza di Caino continuerà a costruire la città terrena (Cf. Gn 4, 17), come luogo di complicità tra le potenze oscure, sempre attive nel concepire e portare a compimento i loro infernali disegni.

La città costruita da Caino (Cf. Gn 4,17), secondo la visione biblica della storia, porta in sé un’ambiguità di fondo, che ostacola l’autentico progresso umano, perché ripropone la strategia della potenza vendicativa ostentata da Lamech – l’esponente più sbruffone della sua discendenza (Cf. Gn 4, 23-24) – e coltiva l’autoreferenzialità di Babilonia, intrisa di orgoglio e supponente pretesa di governare il mondo senza Dio (Cf. Gn 11, 1-9). Ma  “senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia”. (Caritas in veritate, n. 78).

Il Profeta Isaia, nel capitolo che precede il testo qui proclamato, non solo annuncia la distruzione della «città del caos» (Cf. Is 24,10),  ma sviluppa anche il tema del giudizio sui potentati del mondo e svela le ragioni soggiacenti alla caduta della «città insensata»: i suoi abitanti «hanno trasgredito le leggi, hanno violato il comandamento, hanno rotto il patto eterno» (Is 24,5). Di fatto hanno espulso Dio dalla storia, puntando tutto sull’autosufficienza umana, che porta inesorabilmente alla rovina (Cf. Is 24,10-12).

Per questo il  Profeta annuncia  il giudizio  di Dio sui popoli (Cf. Is 24,17-19): da un lato, il giudizio ci assicura che i seguaci di Caino e di Babilonia non potranno farla franca. Forse, grazie alla logica perversa della complicità, passeranno indenni tra le maglie della giustizia umana, ma non potranno nascondere i loro misfatti davanti agli occhi  di Dio; dall’altro lato,  il giudizio divino si apre  sull’orizzonte della speranza: “rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza” (Is 25,9).

Infatti, Isaia – che significa «Dio salva» – nel testo proclamato in questa liturgia  mostra la città redenta, la nuova Gerusalemme (Cf. Ap 21.2), dove sulla rocca di Sion, “in quel giorno il Signore preparerà un banchetto per tutti i popoli” (Is 25,6). Solo in forza di questo “banchetto” – già imbandito oggi nell’Eucaristia – verrà strappato il “velo” dell’ambiguità che copre, qui in terra, “la faccia di tutti i popoli”(Cf. Is 25,7). É grazie al “pane della vita” (Gv 6,35) che “la morte verrà eliminata per sempre e le lacrime verranno asciugate su ogni volto”(Cf. Is 25,8).

É nella Messa, ripresentazione sacramentale del Sacrificio di Cristo, che noi possiamo attingere le energie necessarie “per far scomparire da tutto il paese la condizione disonorevole del nostro popolo” (Cf. Is 25,8). É in questo rito eucaristico che noi eleviamo al Signore la preghiera di suffragio per le vittime e chiediamo il sostegno materiale e spirituale per i superstiti.

Mentre entriamo nel secondo decennio del XXI secolo, il “deserto spirituale” avanza rapidamente e crescono le spinte disgregative, che compromettono la governabilità della dinamica sociale. Pertanto, da più parti, si auspica l’avvento di un “profondo rinnovamento culturale”. Questa crisi – scrive Benedetto XVI – ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole, a puntare su nuove  forme di impegno,  ma esige soprattutto la volontà di discernere, davanti a Dio, ciò che  è bene e ciò che è male  (Cf. Caritas in veritate, n. 21).

In tale prospettiva, celebrare il XXX anniversario della strage del 2 agosto, significa, doverosamente, fare memoria per non dimenticare e, con determinazione, proseguire nella ricerca della verità dei fatti, ma significa anche cogliere l’esigenza di un salto di qualità: imparare, cioè, a leggere in profondità il senso ultimo del sacrificio di questi nostri cari, che sono stati associati al Sacrificio di Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza.

Su questo orizzonte, allora, acquistano il loro pieno valore le parole di Gesù proclamate dal Vangelo di Giovanni: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.. io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Cf. Gv 14,1-6). Pertanto, accettare Gesù come orientamento della vita personale e sociale   non significa contraddire la necessaria laicità dello Stato, perchè la vera laicità è una sintesi viatale connessa al rapporto fede – ragione, che trova il suo riferimento fondamentale proprio in Gesù Cristo: “dare a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare” (Cf. Mt 22,21).
Perciò bisogna ritrovare il coraggio di fare un’”autocritica dell’età moderna”, in sinergia con “l’autocritica del cristianesimo moderno” (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 22), per riaprire le porte della democrazia a Cristo, non solo perchè non è invadente, in quanto principio del’autentica libertà, – ma soprattutto per dare a questa irrinunciabile forma di organizzazione civile la possibilità di “respirare a due polmoni”: quello della fede e quello della ragione. Certe forme ormai logore (“destra – centro – sinistra”; “laici e cattolici” ecc.) non bastano più. Occorrono uomini e donne, di pensiero e di azione, capaci di trasparenza orgomentativa, per raccordare in modo costruttivo il rapporto fede – ragione, a servizio di un’autentica prassi democratica.

La politica – lo ha detto Paolo VI – è una tra le forme più esigenti della carità, perchè è al servizio del bene comune e non di strategie personali o di parte. L’approccio che certi talk show hanno con i problemi vitali della nostra gente sono in contrasto con i fondamenti di una vera democrazia. Anziché orientare il confronto alla ricerca della verità, si lascia filtrare la persuasione che non c’è niente di assolutamente vero, perciò tutti hanno ragione e tutti hanno torto, ognuno a modo suo: chi ha più “potere contrattuale” vince.
Come afferma Benedetto XVI, è necessario, invece, “allargare gli spazi della razionalità”, per un confronto serio tra fede e ragione, in vista di valori “razionali” condivisi, perché la nostra stessa democrazia possa dare un’anima alle sue regole. Essa – come si vede – non può funzionare senza il primato della verità “ragionata” e testimoniata nell’amore. Lo dimostra lo “sfascio” della società in cui viviamo, che non dipende, in primo luogo, da coloro che si alternano al timone del potere, ma dalla cultura relativista e nichilista, generata da un pensiero debole, frantumato, autoreferenziale e, perciò, disumanizzante. É una cultura miope, incapace di vedere che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi (Cf Caritas in veritate, n.34).
Su questo orizzonte, la strage dei nostri cari invoca giustizia, ma pone anche sul piatto della bilancia il loro sacrificio che, in forza della Croce di Cristo, diventa forza propulsiva per una società nuova e diversa.

 

02/08/2010
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