santa messa crismale

Bologna, Cattedrale

Il contesto solenne e suggestivo di questa celebrazione è occasione propizia e provvidenziale per riflettere sul mistero del sacerdozio cristiano, nelle sue due forme – il sacerdozio battesimale e il sacerdozio ordinato – così da capirne bene la loro comune rilevanza e la loro rispettiva specificità.

Il Concilio Vaticano II, quasi presago delle future confusioni, ci ha avvertito con chiarezza che essi differiscono essenzialmente (“essentia et non gradu”), e non vanno in nessun modo assimilati. Alla luce di tale insegnamento, noi chiederemo stamattina al Signore il dono di renderci conto della bellezza del disegno di Dio, nel quale le due forme di sacerdozio, come si distinguono tra loro senza possibilità di sconfinamenti, così al tempo stesso reciprocamente si integrano.

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Il sacerdozio battesimale

“Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere un popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 7,6). Perciò “voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6). Così Dio aveva affermato nella rivelazione mosaica.

Erano soprattutto parole profetiche, che si sono poi perfettamente avverate nel Nuovo Israele, cioè nel popolo dei battezzati.

Quella promessa divina ha potuto realizzarsi integralmente, allorché la lunga vicenda salvifica è arrivata al suo culmine: con l’avvento di colui che dallo Spirito Santo è stato “consacrato con l’unzione” (cfr. Lc 4,18), come abbiamo appreso nella lettura evangelica; cioè quando si è passati dall’epoca dei puri segni all’epoca dei sacramenti.

La comunità dei rinati “dall’acqua e dallo Spirito” (cfr. Gv 3,5), essendo innestata mediante il battesimo in Cristo – il sacerdote della Nuova Alleanza, che nel santuario celeste è sempre in atto di offrire il sacrificio unico e pienamente sufficiente (cfr. Eb 9,11-26) – ha acquisito una natura sacerdotale: “Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (cfr. Ap 1,5-6), ci ha detto la seconda lettura.

Questo è un sacerdozio che è di tutti, preti e laici, allo stesso titolo. Dall’incanto di questa comune ricchezza (che ci è regalata dai riti dell’iniziazione cristiana) san Paolo si dimostra tutto preso e inebriato, quando scrive: “Colui che ci conferma, noi insieme con voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, è il Dio che ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (cfr. 2 Cor 1,21-22).

E’ il “sacerdozio del Cristo totale”, che non si esercita individualisticamente e non fonda prerogative o compiti ministeriali da esercitare all’interno della comunità ecclesiale (della “plebs sancta”): possiede invece una dignità altissima e ha un compito specifico nei confronti dell’umanità intera e dell’universo. E’ la “plebs sancta” tutta insieme a essere investita, per così dire, di una “funzione cosmica”, appunto in virtù della sua consacrazione battesimale.

Nel piano salvifico del Padre, come si vede, in mezzo alla varietà delle genti (“fra tutti i popoli che sono sulla terra”, come era stato predetto) c’è un sacerdozio comune e collettivo, incaricato di offrire a favore dell’intera famiglia umana l’unico sacrificio che redime, ripresentato sui nostri altari. Tutti gli appartenenti alla santa Chiesa Cattolica devono nutrire grande riconoscenza verso il Signore del cielo e della terra, che nel rito eucaristico li ammette (in virtù del loro battesimo) a compiere il servizio sacerdotale (cfr. Preghiera eucaristica II).

Questo stesso “regno di sacerdoti” è deputato altresì ad annunziare apertamente e gioiosamente il Vangelo a tutte le creature (cfr Mt 28,19), e a “proclamare <davanti a tutti> le opere meravigliose di colui che chiama tutti gli uomini dalle tenebre alla sua luce mirabile” (cfr. 1 Pt 2,18), secondo la bella espressione dell’apostolo Pietro.

A questo popolo sacerdotale compete anche di elevare a nome di tutti i figli di Adamo la liturgia di lode e l’implorazione di ogni misericordia e di ogni grazia; e di proporre infine a ogni raggruppamento umano e a ogni cultura il traguardo ideale della civiltà dell’amore.

Ecco il senso e la rilevanza del sacerdozio che è proprio di tutti i credenti.

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Il sacerdozio ordinato

Nel mondo israelitico – il mondo delle realtà raffigurative e dei preannunci – c’era, all’interno del “popolo consacrato” e al suo servizio, il sacerdozio dei figli di Levi. Ed era, anche questa, anticipazione e profezia di ciò che doveva instaurarsi e manifestarsi con la Pasqua di Cristo.

Ebbene, il nostro ministero ordinato – che trae la sua origine e la sua legittimazione dalla successione apostolica – invera e compie nel Nuovo Testamento le prerogative e la funzione di servizio dell’antico sacerdozio levitico.

A che cosa siamo chiamati, in virtù del sacramento dell’ordine che abbiamo ricevuto? Siamo chiamati a partecipare all’indole di capo e di pastore, che nei confronti del popolo dei consacrati è propria del Signore Gesù, il consacrato per eccellenza; e siamo chiamati a condividere la sua donazione sponsale alla Chiesa, che egli ha amato fino a dare se stesso per lei (cfr. Ef 5,25).

Ma Cristo è divenuto capo, pastore e sposo dell’umanità rinnovata soprattutto nell’atto di portare a compimento il sacrificio redentore. Appunto per questo il sacerdote ordinato invera questa specifica strettissima connessione col “Salvatore del suo corpo” (cfr. Ef 5,23) soprattutto nella ripresentazione sacramentale dello stesso sacrificio, quando il celebrante assurge fino a una quasi identificazione con colui che dice sul pane e sul vino: “Questo è il mio corpo”questo è il mio sangue”. Quando cioè egli agisce “in persona Christi”, come si esprime felicemente il linguaggio teologico tradizionale.

Il che ci offre la chiave interpretativa della posizione del vescovo e del presbitero entro la vicenda ecclesiale.

Come abbiamo già detto più volte, l’eucaristia è la Chiesa in boccio, come la Chiesa è l’eucaristia sbocciata nel tempo e nello spazio secondo tutte le sue implicite virtualità. Per questo, come non si dà celebrazione eucaristica – secondo la volontà del suo Istitutore – se non sotto la presidenza del sacerdote ordinato, così non ci può essere nessun momento e nessuna attività della vita ecclesiale (se è davvero e pienamente ecclesiale), che possa essere totalmente avulsa dalla funzione presidenziale che compete al ministero apostolico.

Il vescovo o il presbitero, in un contesto che sia autenticamente e pienamente ecclesiale, non può mai essere configurato solo come un “assistente spirituale”: egli è sempre “colui che presiede”, è sempre il “capo”, in tutti gli ambiti propri e caratteristici dell’azione ecclesiale: nell’evangelizzazione, nell’opera santificatrice, nell’esercizio della carità, nella concreta gestione comunitaria, nell’animazione cristiana delle realtà temporali.

Anche se egli non è mai un capo chiuso in sé e staccato dal resto, perché in tutto è sempre necessariamente coinvolta la “nazione santa”, il “sacerdozio regale”, il “popolo che Dio si è acquistato” (cfr. 1 Pt 2,9). Niente dunque può o deve essere compiuto in assoluta indipendenza dal vescovo o dal presbitero; ma niente deve o può essere compiuto senza qualche coinvolgimento attivo della comunità dei battezzati.

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Grande, come si vede, è il nostro ministero, grande la nostra responsabilità, grande la fiducia che è stata riposta in noi dal Signore.

Con questa ravvivata consapevolezza, rinnoviamo adesso le promesse della nostra ordinazione. Potremo così ripartire da questa messa crismale con l’animo risoluto a farci icone più fedeli di colui che così da vicino serviamo e ben decisi a riscoprire in tutto il suo fascino e in tutte le sue esigenze la carità pastorale verso i nostri fratelli, insigniti come noi e con noi del “sacerdozio regale”.

28/03/2002
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