Santa Messa per gli studenti, i docenti e il personale tecnico amministrativo dell’Università degli Studi di Bologna all’inizio dell’anno accademico

Bologna, Cattedrale

Anche quest’anno siete venuti a chiedere la benevolenza e l’aiuto del Signore sul vostro nuovo anno accademico: un anno che, comunque vada, alla fine apparirà prezioso e decisivo, entro la vostra avventura umana.
E siete venuti a presentare a Dio i vostri propositi: propositi, io mi auguro, di serietà e di abnegazione nello studio e nella ricerca.

Quale che sia la disciplina che avete prescelto, non dovete risparmiare fatiche per progredire in essa con intelligenza e tenacia, rispettandola nella metodologia che le è propria, senza concedervi evasioni arbitrarie e alienanti.

Al tempo stesso, siete venuti a esporvi alla luce della parola rivelata e al calore della divina presenza: sotto questo profilo, il raduno di stasera è una convocazione ad ascoltare una lezione in più, oltre a tutte quelle che vi intratterrano nei prossimi mesi; una lezione fuori programma, una lezione diversa, ma non estranea alla vostra maturazione di uomini e di donne che si preparano a quelle responsabilità e a quegli impegni nel mondo degli adulti, ai quali la Provvidenza vi destinerà. E’ una lezione che cercheremo di assimilare, utilizzando l’insegnamento propostoci dalla pagina evangelica che qui è risonata.

L’episodio che abbiamo ascoltato non è inconsueto: si tratta di uno dei tanti incidenti che oppone Gesù ai farisei e agli scribi a proposito dell’osservanza del sabato. Il fatto che la Chiesa primitiva abbia custodito la memoria di questo dissidio, presentandolo ripetutamente tanto nella catechesi sinottica quanto in quella giovannea, ci dice che le assegnava una rilevanza grande e perenne nella formazione del cristiano.

Il testo ci offre, per così dire, una molteplicità di livelli: possiamo ravvisarvi un ordine crescente di approfondimenti fino alla realtà più intima e sostanziale dell’Unigenito del Padre, venuto come uomo tra noi.

1. “Gesù entrò nella sinagoga” (Lc 6,6).
La sinagoga era la raffigurazione di tutto l’ebraismo, il luogo dove si custodivano i rotoli della Legge e dei Profeti, la presenza riattualizzata di tutte le memorie e di tutte le speranze d’Israele. Il Messia, il Figlio di Davide, entra là dove era atteso da secoli: entra nella sua casa, dove tutto parla di lui, dove ogni salmo e ogni lettura alludeva alla sua realtà e anelava alla sua venuta.
Entra nella sinagoga, tra i suoi fratelli secondo la carne, dove lo si stava aspettando dal tempo della vocazione di Abramo.

Eppure non è accolto, non è compreso, suscita rabbiose ostilità. La ragione è che il suo fulgore è troppo abbagliante, la grandezza del suo messaggio è fuori misura, la novità del suo comportamento sconvolge troppo ogni abitudine acquisita e turba ogni plausibile previsione.
Gesù è sempre così: quando ci si rivela esistenzialmente, quando ci chiede qualcosa, ci stupisce, ci eccede, sconvolge ogni nostro ragionevole progetto.

“Dio è più grande del nostro cuore” (1 Gv 3,20), sta scritto nella prima lettera di san Giovanni; e il Figlio di Dio è sempre più grande dei nostri desideri, dei nostri calcoli, della nostra storia personale. Perciò dobbiamo stare pronti, allorché decidiamo di entrare in un rapporto serio con lui, a lasciarci continuamente superare dalle sue severe esigenze e dagli esorbitanti disegni del suo amore.

2. “E si mise a insegnare” (ib.).
Entra nella sinagoga non come un semplice israelita, ma come un maestro. Gesù insegna, insegna sempre e dappertutto: nella sinagoga, sotto i portici del tempio, sulle rive del lago, sulle cime dei colli, sulle polverose strade di Palestina. Insegna al sabato e insegna negli altri giorni. Insegna agli umili e insegna ai dottori della legge.

Egli è il Maestro, e tutti gli uomini, tutte le esistenze, tutte le scienze e le conoscenze hanno bisogno della sua luce.
Gesù ha detto di sé, senza incertezze e senza titubanze: “Uno solo è il vostro Maestro: il Cristo” (Mt 23,8).

Questo significa tra l’altro, a ben pensare, che noi dobbiamo ascoltare con interesse, con rispetto, con gratitudine coloro che hanno nei nostri confronti la missione di insegnare (ivi compresi gli esegeti, i teologi, i vari opinionisti sacri e profani); ma sempre relativizzandoli a lui. E tanto più relativizzandoli quanto più essi indulgono alla naturale e comprensibile tentazione di assolutizzarsi.

Attraverso tutti i maestri umani, in tutti i maestri umani, sopra tutti i maestri umani, vogliamo ascoltare lui, l’unico vero Maestro, che ci plasma l’animo con le sue parole, con le sue azioni, soprattutto con la realtà palpitante della sua persona che vive, illumina, perdona, consola entro tutto il mistero dell’esperienza ecclesiale, secondo la sua promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

3. “Stendi la mano” (Lc 6,10).
Di fronte alla sofferenza umana (qui è soltanto un uomo “dalla mano inaridita”), egli si lascia commuovere e opera il prodigio. Noi sappiamo che l’animo di Cristo è sempre così: nessuna delle nostre pene, nessuna delle nostre difficoltà lo trova distratto o indifferente.
Quando lo preghiamo (“Abbi pietà! Kyrie eleison!”), la nostra implorazione fa subito tremare di commozione il suo cuore, anche se non sempre egli ci lascia scorgere quali siano le strade che la sua misericordia sostanziale ha deciso di percorrere per attuare il nostro vero bene.

4. “Per vedere se lo guariva di sabato” (Lc 6,7).
Qui c’è il nocciolo della questione e l’insegnamento più alto: il problema del suo lavoro in sabato non era marginale e non derivava solo dal gretto puntiglio dei suoi avversari.
I rabbini riconoscevano che Dio (ma Dio solo) ha il diritto di lavorare nel giorno che per tutti è di riposo, tanto è vero che anche in sabato egli attende alla conservazione e al governo del mondo.

Sicché essi capivano bene che col suo atteggiamento rivendicava per sé le prerogative divine e l’uguaglianza con il Creatore: “Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro” (Gv 5,17), aveva proclamato Gesù in una circostanza analoga a questa. Di qui lo sdegno teologico dei suoi nemici e i loro progetti di morte per un bestemmiatore: “Essi furono pieni di rabbia e discutevano fra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù” (Lc 6,11).

Noi invece ci rendiamo conto che proprio qui sta la fonte della nostra gioia più intensa e il fondamento più certo di ogni nostra speranza. L’Atteso dei popoli, il Maestro unico e vero, il Salvatore pietoso è anche colui che essendo costituito nell’eternità colma di sé tutti i nostri tempi e tutti i giorni della storia, è il Creatore del cielo e della terra, è l’Onnipotente che riempie e trascende ogni spazio.

Vedete, credere che Gesù è un uomo come noi (magari un grande pensatore, un geniale fondatore di religioni, un promotore della solidarietà e della giustizia, il “primo socialistà” o l’annunciatore di ogni libertà umana), non è difficile, ma non è salvifico: un uomo in più non ci basta e non ci serve.
Salvifico è credere che un uomo come noi, che ha condiviso la nostra fragilità, la nostra capacità di soffrire, il nostro destino di morte, è al tempo stesso veramente “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” (come diciamo nel Credo). E’ l’Emmanuele, il Dio che è entrato nei nostri percorsi travagliati, il Dio che ci può riscattare da ogni nostra angustia e da ogni nostra miseria. E’ una fede difficile, e per questo va continuamente ravvivata.

Si tratta, è evidente, di una verità proporzionata non alla nostra piccola mente, ma all’infinita sapienza di Dio. Ma accoglierla è anche la sola scelta razionale che può rischiarare l’enigma del nostro esistere e può redimere l’uomo dalle sue incombenti assurdità.

La lezione è finita. Messia, Maestro, Salvatore compassionevole, Figlio di Dio. E’ stupefacente che un piccolo episodio, raccontato da Luca in pochi versetti, abbia potuto offrirci quasi un trattato essenziale di cristologia. Ne ringraziamo il Signore; e, così illuminati, riprendiamo con nuovo slancio il nostro cammino.

14/11/2002
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