Dio, nella persona di Gesù di Nazaret, suo Figlio unigenito, unico Signore dell’universo e unico Salvatore, si manifesta a tutti i popoli senza discriminazione alcuna, per fare di ogni uomo un cittadino del suo Regno di giustizia, di pace e di amore. Questo è il messaggio che ci viene dall’antichissima festa dell’Epifanìa, tra le più solenni dell’anno cristiano. La pagina del vangelo di Matteo, che abbiamo ascoltato, ci aiuta a riflettere su questa fondamentale verità.
Un drappello di personaggi inconsueti, dal numero imprecisato, designati con il nome abbastanza vago di “magi”, lasciano i loro paesi a oriente del Giordano e si mettono in cammino alla ricerca di Dio. Sono motivati dalla persuasione – chissà come arrivata fino alla loro coscienza, ma certo non senza una illuminazione dello Spirito Santo che “spira dove vuole” (Gv 3,8) – che il Re del cielo e della terra con una eccezionale iniziativa salvifica era entrato nella vicenda umana. Verosimilmente anche altri avranno avuto la stessa notizia e la stessa ispirazione; ma costoro non si sono mossi dalla quiete delle loro case, forse timorosi delle fatiche e dei disagi del viaggio, forse incapaci di affrontare l’ostilità e la prevedibile ironìa della gente.
Dio, si sa, si propone ma non si impone all’anelito delle sue creature. Anzi usa avvicinarsi a noi e chiamarci, più che altro, attraverso “segni”: segni che in parte lo svelano e in parte lo celano al nostro sguardo.
Così, un cuore arido e prevenuto può sempre accampare qualche pretesto per eluderlo o addirittura respingerlo; mentre un cuore sincero e umile arriva agevolmente a scorgere le ragioni convincenti per accettarlo.
Ma, si approdi a una ripulsa o a un’accoglienza, questo non avviene mai senza una libera e drammatica scelta. Dopo di che, in ogni caso, non si è più come prima. Lo sappiano o no, gli uomini sono valutati sostanzialmente, nella loro profonda realtà, proprio a seconda e a misura che acconsentono a diventare pellegrini dell’Assoluto ed esploratori del senso ultimo delle cose.
Dio, ci sono di quelli che lo non cercano affatto. Non lo cercano perché si sono fatti un cuore piccolo e rattrappito, che “vive di solo pane” (cfr. Mt 4,4); essi, cioè, spensieratamente identificano la felicità con gli agi, i godimenti e i consumi. Essi vivono nella superficialità di ciò che è provvisorio, insensibili al fascino dell’eterno, tutti presi e appagati dai giorni che non lasciano traccia; e con questo si sentono sazi. “Guai ai sazi” (Lc 6,25), dice di loro Gesù con impressionante severità.
Molti invece non cercano Dio perché, abbagliati dal progresso scientifico e dalle mirabili conquiste della tecnica, lo considerano ormai superfluo, quando non lo ritengono un mito fiabesco incompatibile con l’età adulta del moderno sapere. Ma forse che la scienza può rispondere ai nostri più intimi e pungenti interrogativi circa la nostra esistenza e il nostro destino? Forse che la tecnica ci può infondere da sola la forza di vivere e di operare, di soffrire e di morire nella pace e nella speranza?
C’è poi chi nella sua ricerca è impedito dalla volontà e dall’orgoglio di credersi e di sentirsi del tutto autonomo e autosufficiente. Non vogliono riconoscere il proprio limite e piuttosto che rassegnarsi a dipendere da una verità rivelata, preferiscono l’insicurezza fluttuante dei loro dubbi e delle loro incerte opinioni.
Noi però sappiamo, perché ce l’ha detto lui nel modo più esplicito, che Dio è intrinsecamente “salvatore” e “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Abbiamo dunque la sicura fiducia che egli si darà da fare anche con tutti questi “non ricercatori”, che sembrano chiudersi senza rimedio alla grazia dell’Epifanìa: si darà da fare perché anche costoro – per l’intercessione dei Magi, i “santi ricercatori di Dio” – alla fine “cadano in grembo a un’immensa pietà” (cfr. A. MANZONI, Ognissanti 28).
Una parola di simpatia e di ottimismo vogliamo dire soprattutto a coloro che cercano Dio, anche con impegno e sofferto desiderio, ma hanno l’impressione di non riuscire ad arrivare a lui. Avvertono magari l’insoddisfazione di una società ricca di benessere ma povera di ideali; sentono dentro di sé un vuoto che tutte insieme le creature del mondo non bastano a riempire. Ma non giungono mai a un rapporto aperto, personale, emozionante, con il loro Creatore.
Talvolta c’è, in questi inquieti ricercatori, nascosta e subdola, la paura di approdare alla mèta. Quando si presagisce che l’acquisto della verità pretenderà abbandoni e rinunce che non ci si sente pronti ad affrontare, allora il pellegrinaggio si fa difficoltoso e il cammino sembra quasi paralizzarsi. Quando si profila l’esigenza di una “conversione” evangelica seria e totale, allora – dice Pascal – “il cuore conta storielle all’intelligenza” ed escogita mille cavilli per allontanare una decisione totalitaria, che spaventa e appare troppo onerosa.
Ci vuole molto coraggio per arrivare effettivamente a Betlemme, per prostrarsi davanti al Re dell’universo e dei cuori, per fargli dono di quanto abbiamo e di tutto quanto siamo (cfr. Mt 2,11). E il Signore questo coraggio presto o tardi lo dà, se appena appena non ci si ostina a preferire la propria miseria alla sua misericordia.
Del resto, se uno si mette davvero in cerca di Dio, è segno che almeno inizialmente, in maniera aurorale, Dio da lui si è già lasciato trovare.
Alla fine, tutta questa bellissima avventura dell’uomo si conclude con una immensa gioia; la gioia di possedere una luce dall’alto che ci illumina e ci orienta con tranquillità nei nebbiosi sentieri della vita: “Al vedere la stella, i Magi provarono una grandissima gioia” (Mt 2,10). E’ una interiore letizia che ripaga con sovrabbondanza di tutte le pene, le trepidazioni, gli affanni sostenuti nella ricerca.