trigesimo di s.e. mons. Gilberto Baroni

Bologna, Cattedrale

A poco più di un mese dalla morte di Monsignor Gilberto Baroni, vescovo emerito di Reggio Emilia – Guastalla, possiamo renderci conto con riflessione più calma e rasserenata del grande dono che nella sua persona di uomo, di cristiano, di pastore il Signore ha elargito alla santa Chiesa.

In questa cattedrale di San Pietro – che vide la sua ordinazione episcopale per le mani del cardinale Giacomo Lercaro il 27 dicembre 1954 – ci viene spontaneo ripensare particolarmente alla generosità, alla saggezza, alla dedizione sacerdotale di cui egli ha gratificato per molti anni la nostra diocesi. E la preghiera di suffragio, che fraternamente eleviamo per il suo riposo eterno, si compone naturalmente con una commossa azione di grazie; un’azione di grazie che, come è ovvio, va primariamente e direttamente al Padre di ogni luce e di ogni favore; ma poi raggiunge anche il servo buono e fedele che è stato docile, sapiente e volonteroso strumento della benevolenza divina.

Molteplici e progressivamente più impegnative sono state le mansioni ecclesiali che egli ha svolto tra noi: direttore prima dell’Ufficio Amministrativo, poi responsabile per tredici anni della Cancelleria Arcivescovile, infine Vicario Generale e Vescovo Ausiliare, e dunque il primo e più stretto collaboratore del cardinal Lercaro.

A queste alte responsabilità egli giunge con una preparazione culturale che teme pochi confronti: la laurea in teologia alla Pontificia Università Gregoriana nel 1936, la laurea in giurisprudenza all’Alma Mater bolognese nel 1941, la laurea in diritto canonico sempre alla Gregoriana nel 1946.

Ho avuto personalmente modo di apprezzare la sua limpida e robusta visione teologica, quando mi sono trovato accanto a lui nella Commissione per la fede e la catechesi della Conferenza Episcopale Italiana proprio negli anni operosi e decisivi della preparazione dei nuovi catechismi nazionali.

Egli rifuggiva tanto dalla prolissità quanto dalla troppa ricercatezza del discorso. Senza sforzo sapeva coniugare la vivacità dell’approfondimento intelligente con l’amore per la più salda ortodossia, senza allentare mai la sollecitudine per la possibilità di comprensione da parte anche degli umili.

In tutti i suoi pronunciamenti, come nel suo pubblico magistero, si vedeva con chiarezza che la sua teologia si sostanziava tutta di una fede forte e personalmente maturata; ed era altresì una fede attenta a non discostarsi, neppure nelle forme espressive, dalla semplice fede del popolo di Dio.

Egli l’aveva assorbita e assimilata dalla famiglia nella quale era nato e cresciuto; una famiglia davvero straordinaria per l’autenticità del sentimento religioso, per l’amore sincero e fattivo alla Chiesa, per l’eccezionale fecondità vocazionale.

Di tutto ciò troviamo un’ultima e preziosa eco nel testamento spirituale, suprema espressione della sua essenziale spiritualità e della sua concreta visione pastorale.

Due cose specialmente ci colpiscono in quel documento. Nel fiducioso appello al Signore Gesù si sente che il Figlio di Dio crocifisso e risorto è per lui un interlocutore abituale, è il destinatario di ogni anèlito di una lunga esistenza tutta pervasa di luce soprannaturale, è il confidente di un’intera vita. E in secondo luogo, si avverte il gusto di ricorrere al linguaggio della fede più semplice e di usare le formule della pietà popolare, imparate nell’infanzia.

Quanto sia stata benefica la sua presenza e la sua azione per la nostra Chiesa, altri potrà indagare in futuro con più agio e con analisi più penetrante.

Ma è consentito manifestare subito una persuasione. Ed è la provvidenzialità della sua cooperazione col cardinal Lercaro. È stato senza dubbio provvidenziale che un grande arcivescovo dalle vaste prospettive e dai lungimiranti ardimenti, tutto proteso a cercare le nuove vie di evangelizzazione e di confronto con la società contemporanea, si trovasse sostenuto, aiutato e, per così dire, completato dal realismo, dall’attenzione alla quotidianità ineludibile, dalla vigilanza disincantata di questo collaboratore infaticabile e leale.

Accomunati da un identico amore per Bologna e per la sua Chiesa, questi due uomini l’hanno servita con equilibrio e con singolare efficacia, in una stagione importante della sua storia.

Abbiamo anche avuto la fortuna di riavere con noi Monsignor Gilberto Baroni nei suoi ultimi anni. L’abbiamo tutti ammirato quando si è fatto quasi “cappellano”, coadiutore umile e discreto, del fratello nel lavoro parrocchiale a San Pietro in Casale. E l’abbiamo ammirato per la modestia e la semplicità con cui ha percorso le strade della nostra città, è entrato a pregare nelle nostre chiese, si è prontamente prestato alla celebrazione delle sante cresime.

L’abbiamo ammirato e l’abbiamo sempre più amato.

Le letture di questa terza Domenica di Pasqua ci aiutano a fare di questa nostra commemorazione, soffusa di rimpianto per un amico che non vediamo più accanto a noi, un atto di grande e ravvivata speranza.

Il nostro unico comune Signore, che è stato “innalzato alla destra di Dio”, è davvero risorto, è principio della nostra futura risurrezione, ed è sempre al nostro fianco così come si è accompagnato ai discepoli disanimati di Emmaus.

E siamo certi che un giorno ritroveremo tutti coloro che ci sono stati cari, nella gioia e nella gloria di essere per sempre una sola famiglia.

Come ci ha detto san Pietro, “la nostra fede e la nostra speranza sono fisse in Dio” (cf 1 Pt 1,21).

17/04/1999
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