«Uno, nessuno, centomila»: alla ricerca del vero io

Carissimi amici, questa sera vorrei indicarvi la via per diventare “qualcuno”, e cessare di essere semplicemente “qualcosa”: per diventare una persona vera. C’è bisogno da parte vostra, questa sera, di una grande attenzione, perché diremo cose assai importanti.

1.         Iniziamo la nostra riflessione da un detto di Gesù: «che vale per l’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?». Gesù fa un confronto: da una parte il mondo intero; dall’altra l’io che è ciascuno di noi. Da questo confronto esce vincente l’io che è ciascuno di noi. Provate ad immaginare una bilancia. Su un piatto immaginate di mettere il mondo intero, e sull’altro l’io che è ciascuno di voi: la bilancia pende dalla vostra parte.

            Prima obiezione: «mi sembra esagerato ciò che dice Gesù. In fondo io sono uno in mezzo a tanti. Uno dei cinque miliardi di uomini. E fra cinque miliardi, uno più uno meno non cambia molto».

Questa obiezione al detto di Gesù esprime bene l’atmosfera culturale che respiriamo: misurare l’importanza, la grandezza di una realtà solo dal punto di vista della quantità. Se ci pensate un momento, è applicare al mondo delle persone il criterio che vale per il mondo delle cose. Vi aiuto con un esempio.

            Non è la stessa cosa … avere in tasca dieci euro e averne dieci miliardi: nel denaro la quantità è decisiva. Ma se una madre ha quattro figli e ne perde uno – poniamo – in un incidente stradale, la si può consolare dicendo “ma in fondo te ne restano tre: hai perso  solo il 25% dei tuoi figli”? Dovete davvero capire bene questo: le persone non sono quantificabili, non sono numerabili.

            Siccome questo è un punto fondamentale, vi aiuterò con un altro esempio. Andate a comperare un giornale quotidiano: per farlo, basterà che voi diciate il nome. Se l’edicolante vi desse il quotidiano richiesto, e voi diceste: “Voglio il Resto del Carlino; ma non questa copia, ma quell’altra”, l’edicolante avrebbe tutto il diritto di ritenervi un po’ … matti. Perché? Ogni copia del quotidiano è uguale ad ogni altra, essendo ciascuna l’esatta riproduzione dello stesso modello. E quindi ciascuna è scambiabile con ciascuna: è una serie. è così di ciascuno di voi? Sono sicuro che vi rifiutate di pensarlo. Ciascuno di noi non è scambiabile con nessuno. è unico; non fa numero. è fuori serie. Il numero, la quantità non entra nel mondo delle persone.

            Cari giovani, guardate che oggi non è facile non dico essere convinti di questo, ma pensare l’uomo in questo modo. La cultura in cui viviamo ha talmente degradato l’uomo da convincerlo che egli vale non per ciò che è, ma per ciò che ha: è la quantità dell’avere [denaro, successo, prestigio …] che misura la preziosità dell’essere. “Lui sì che è qualcuno”, si dice di uno; e si intende dire “lui sì che ha avuto successo…”.

            Dunque abbiamo detto: una sola persona vale più di tutto l’universo; la persona non è numerabile: ogni persona è fuori serie, unica; ogni persona gode di una valore infinito.

2.         Adesso dobbiamo fare un passo ulteriore, che ancora una volta esige molta attenzione. Cerchiamo di rispondere a questa grande domanda: perché la persona possiede un valore infinito?

            Inizio ancora una volta la mia risposta da un fatto molto semplice. Due sposi desiderano molto avere bambini. Finalmente la sposa resta incinta. Purtroppo dopo qualche mese di gravidanza, perde il bambino: aborto spontaneo. Un medico colla migliore intenzione di consolarla, le dice: “non pianga; lei potrà avere altri bambini”. Risponde la donna: “sì, ma lui l’ho perduto”. Riflettiamo su questa semplice e straordinaria risposta.

            Quando, come, noi scopriamo l’irripetibile unicità di una persona? Dentro ad un rapporto di amore. E ciò vale da due punti di vista. è l’amore la luce che illumina l’intelligenza e le fa capire, vedere la preziosità unica della persona dell’altro; è l’amore quindi che, vedendo il valore immenso dell’altro, ti fa dire: “come è bello, come sono contento che tu ci sia!”. E reciprocamente ciascuno acquista coscienza di se stesso, della sua preziosità dentro ad un rapporto con un tu. L’io solitario, chiuso in se stesso, estraneo ed estraniato, non capisce se stesso: non giungerà mai ad essere un io vero, nel senso pieno della parola.

            Si potrebbero dire ancora molte cose su questo punto. Ma voglio procedere oltre, prendendo in seria considerazione una nuova obiezione, la seconda.

            Seconda obiezione: «Ã¨ vero quello che tu dici, che cioè dentro ad un rapporto di vero amore, ciascuno cessa di essere qualcosa, diventa qualcuno, un “io”. Ma proprio questo dimostra come ciascun io, ognuno di noi sia fragile come una foglia. L’amore può cessare. E soprattutto, muore anche la persona amata. Alla fine l’ultima parola la dice la morte. Come dice il poeta: “… e involve/ tutte le cose l’oblio nella sua notte;/ e una forza operosa le affatica/ di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe/ e l’estreme sembianze e le reliquie/ della terra e del ciel traveste il tempo” [U. Foscolo, Dei sepolcri 17-22]».

            Siamo arrivati al punto centrale della nostra catechesi: prestatemi molta attenzione!

            Tenendo presente la nostra esperienza umana che testimonia come si diventa un «io» all’interno di un rapporto di amore; tenendo presente che ogni rapporto di amore è insidiato dalla infedeltà e soprattutto dalla morte, noi giungiamo alla seguente conclusione: l’io diventa veramente inattaccabile qualora fosse amato da una Persona (a) capace di un amore eternamente fedele e (b) capace di un amore più forte della morte. Ciascuno di noi diventa veramente un «io» solo se è [sottolineate bene questo: se è], e se prende coscienza di essere [prendere coscienza viene dopo, ma è necessario] amato da uno con un amore eterno e onnipotente.

            Cari giovani, sapete come si chiama questo amore che fa di ciascuno di noi un «io»? si chiama atto creativo di Dio. è precisamente questo il punto centrale della nostra catechesi. Mi fermo dunque un poco.

Che cosa significa dire: «Dio mi crea?». Significa che tu non esisti per un caso fortuito o per l’incrociarsi di forze impersonali. Significa che tu esisti perché Qualcuno prima che tu esistessi, ti ha pensato e ti ha voluto. Appunto: ha desiderato che tu esistessi di fronte a Lui. Ha voluto istituire con te una relazione di vero amore.

L’atto creativo non si pone all’inizio del tuo esserci, solamente. Esso è continuo: Dio ti fa essere in ogni istante, perché vuole che sia davanti a Lui come un tu a cui Egli, Dio, desidera rivolgersi.

Questo dice la misura della grandezza dell’io. Mi spiego con un esempio. Immaginate – ne ho visto ancora in Valle d’Aosta – un uomo che si prende cura di una mandria di bestie, e passa le sue giornate con esse. Le bestie sono il suo quotidiano interlocutore. Certamente questa persona si sente un io nei confronti della sua mandria: la dirige, la comanda. Tuttavia voi capite che la “misura” della sua consapevolezza di essere un io, è piuttosto limitata.

Immaginate che questa stessa persona sia anche abitualmente chiamata dal sindaco del suo paese, perché lo considera un uomo molto sapiente e saggio, al punto da non prendere nessuna decisione amministrativa senza sentirne il parere. Certamente questa persona si sente un io nei confronti del suo sindaco. E voi capite che in questa seconda ipotesi la “misura” della sua consapevolezza di essere un io è molto più grande.

Possiamo allora formulare la seguente legge generale: la misura della consapevolezza di essere un io è data dalla misura della dignità o grandezza della realtà con cui si confronta.

Poiché l’atto creativo ti pone di fronte a Dio, quale è la misura del tuo essere un io? Una misura infinita. S. Tommaso dice la stessa cosa dicendo che nell’universo non esiste nulla di più nobile della persona umana, perché solo essa è costituita e chiamata ad essere in un rapporto diretto con Dio stesso.

Dunque abbiamo detto: la persona umana è un io eterno, di infinita dignità, perché è il tu di Dio stesso. è in un rapporto con Dio.

3.         Facciamo ora l’ultimo passo della nostra catechesi: quello più suggestivo, profondo e commovente. E lo facciamo partendo da un testo di Giovanni Paolo II che si riferisce al Natale.

            Dice il passo: «Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore, se ha meritato di avere un tanto nobile e grande redentore, se Dio ha dato il suo Figlio, affinché egli, l’uomo, non muoia, ma abbia la vita eterna? In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama evangelo, cioè la buona novella. Si chiama anche cristianesimo» [Lett. Enc. Redemptor hominis 10,1-2; EE8/28-29].

            In realtà, l’esempio che ho fatto prima del pastore, non è del tutto fittizio. è accaduto nella notte di Natale. I primi a cui fu svelato quanto Dio si prendesse cura dell’uomo, furono dei pastori. Essi poterono vedere “quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore”.

            Il Vangelo poi dice: «I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» [Lc 2,20]. Ritornarono alla loro condizione sociale di prima. Le pecore puzzavano come prima; la considerazione che la società aveva di loro continuava ad essere pessima. Ma una cosa era cambiata in loro: era nata in loro la consapevolezza di essere un io davanti a Dio. Era fiorito in loro lo stupore profondo riguardo alla dignità della loro persona: si erano sentiti amati da Dio stesso; presi in considerazione da Dio stesso.

            Il cristianesimo è oggettivamente un fatto: Dio ha tanto amato l’uomo, si è preso talmente cura dell’uomo, da assumere la nostra stessa natura e condizione umana. Ha voluto dirci nell’unico modo a noi comprensibile, che ci ama. Soggettivamente il cristianesimo è la certezza inattaccabile di questo fatto [= fede; «noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi»], e quindi la consapevolezza che ciascuno ha di essere un io eterno avente un valore infinito.

            Concludo con due testi mirabili di S. Paolo. Vi parlavo delle due insidie che attaccano il rapporto di amore: l’infedeltà e la morte. Ascoltate ora S. Paolo: «io sono … persuaso che né morte né vita, né angeli ne principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore» [Rom 8,18-19].

            L’apostolo è assolutamente sicuro che Dio non si stancherà mai di amarci in Gesù. Ma nell’elenco delle forze ostili ne manca una: la nostra libertà. Dio non si separa mai dall’uomo; ma l’uomo può decidere di separarsi da Dio. Vedete di quale vertiginosa grandezza è dotata la nostra libertà: l’io è chiamato a prendere posizione nei confronti di Dio.

            Il secondo testo: «Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» [Gal 2,20]. Non è un amore generico. è un amore per te: è dentro questa certezza che si diventa un io vero, un grande io. E si cessa di essere “uno (fra i tanti), nessuno, centomila”. Ed il primo segno di essere diventati un io, è il desiderio di vedersi affidato un compito, una missione: «Signore, cosa vuoi che io faccia?».

            Diventare un io, affermare in pienezza la propria libertà, porsi nella totale disponibilità alla propria missione-vocazione: tre affermazioni che descrivono lo stesso fatto: è nata una PERSONA.

 

14/12/2008
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