Veglia di preghiera “Morire di Speranza”, per ricordare tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza verso l?Europa

Matteo 25,35-36
Sentiamo tanta emozione per la preghiera di questa sera. Vogliamo ricordare chi è stato dimenticato da vivo. Sono nomi sommersi da quel mare di indifferenza che li ha inghiottiti. Farlo è come recuperarli. Non sono una categoria, ma nomi, cioè quella persona unica, irripetibile, immagine di Dio, fatta come me, che prova i miei stessi sentimenti. Il male ha cancellato il loro nome, Dio ci insegna a ricordarli e ad amarli. Ricordiamo per strappare all’anonimato, per non accettarlo come normale, per imparare a piangere. Questo commuove. Dobbiamo provare orrore e non abituarci mai a vedere un bambino morto sulla spiaggia. Ricordare e piangere ci aiuta a vedere oggi. Sono morti, annegati, soli nella vastità dell’acqua o di sete nell’enormità del deserto o di mancanza di medicine nei viaggi che non conosciamo, ma dove manca tutto e tutto diventa difficile, incerto. Le loro parole sono quelle dei salmi, quelle parole che tutte le volte che le pronunciamo ci fanno immedesimare nella sofferenza dell’uomo e nei suoi vari sentimenti. (Salmo 68): “Non mi sommergano i flutti delle acque e il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca”. “Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge. Sono sfinito dal gridare, riarse sono le mie fauci. Ho atteso compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. Per alcuni ci sono stati degli angeli, e credo che dobbiamo ringraziare lo sforzo di quanti evitano tragedie con il loro impegno. Ma la misericordia non si può solo accontentare di soccorrere. La misericordia ha fretta, arriva sempre prima, prepara, anticipa il futuro, lo realizza, spesso accompagnata nel presente da incredulità, da indifferenza, da vera ostilità. Penso ai corridoi umanitari per profughi in condizioni di “vulnerabilità” cioè donne sole con bambini, vittime potenziali della tratta di essere umani, anziani, persone affette da disabilità o serie patologie. E’ esattamente il contrario del non fare niente, che in realtà significa lasciare fare a chi sfrutta e inganna la disperazione e fa morire di speranza. I profughi sono proprio i fratelli più piccoli che, abbiamo ascoltato, sono affamati, assetati, nudi, stranieri, malati, prigionieri della disperazione. Nei corridoi umanitari si “fa” misericordia, perché ci facciamo noi loro “garanti”. Significa dire sono miei amici. E’ esattamente l’opposto dell’indifferenza con i suoi riti di impotenza, per cui è tutto troppo difficile: è dire “li voglio”, li conosco perché so che stanno male, sono miei! Allora ricordare quelli che non ce l’hanno fatta non è solo guardare al passato – un dovere di fronte a tanto dolore, con rispetto, provando la loro sofferenza -, ma è scegliere il futuro.
Morire di speranza è un controsenso amaro, sconvolgente, ingiusto. E ci impone di essere noi uomini di speranza. Darla a loro ce la fa cercare anche per noi, non ci fa sciupare le tante opportunità, ce ne fa creare delle nuove, ci fa comprendere come ci si salva solo tutti assieme. Essi non sono morti per caso, ma per colpa del male e delle tante complicità degli uomini, quelle di chi ha provocato, voluto, la guerra, quella armata che uccide e distrugge tutto anche l’umanità tanto che gli uomini diventano cose, fiere e prede, carnefici e vittime. E anche quella guerra silenziosa, ma non meno terribile, che è la fame, la povertà: anche queste uccidono. E anche queste hanno cause e responsabili. La loro speranza era in realtà un grido di aiuto, una ribellione. Non fare nulla non lascia innocenti. Sono morti anche perché nessuno ha aiutato a superare i problemi, ha offerto garanzie, perché non hanno trovato altro che scafisti, perché non c’erano altre porte aperte. Ogni minuto dell’anno passato ventiquattro persone sono state costrette ad abbandonare la propria abitazione per fuggire dall’ inferno delle guerre, da persecuzioni, torture, pulizie etniche o stupri di massa. Sono sessantacinque milioni gli uomini costretti ad andare lontano dal loro paese. Erano 1400 al 26 maggio 2016 gli uomini, donne e bambini che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo in questi primi 5 mesi dell’anno. In tutto il 2015 sono morte 3700 persone. 300 delle 1400 vittime sono bambini, tutti come il piccolo Alan. Sono i nomi che ricordiamo.
Il Vangelo ci insegna a toccare i poveri. Non li giudico, non li studio da lontano, me ne prendo carico. Non fare significa perderli. Ieri Papa Francesco ha detto che solo toccare il povero ci libera dall’ipocrisia, compresa quella di muri che non proteggono nessuno e complicano solo la vita di tutti, da ogni parte del muro.  “Tanti pensano che sarebbe stato meglio che fossero rimasti nella loro terra, ma lì soffrivano tanto. Per favore, sono i nostri fratelli! Il cristiano non esclude nessuno, dà posto a tutti, lascia venire tutti”. Non è ingenuità! Solo la misericordia è realista e sa trovare le soluzioni. Davanti a problemi epocali dobbiamo avere il coraggio della misericordia, lucida, intelligente, che guarda lontano e prepara il futuro. Quello che oggi è un’ombra diventa il prossimo, il più vicino. Quello che oggi sembra un nemico diventa tuo figlio. Quello che sembra uno straniero sarà tuo familiare. Adottiamoli. Diventiamo angeli di amore. Gesù parla di corpi, concreti. Non descrive azioni astratte, virtuali, teoriche, ma tutte legate alla vita. Non ci è nemmeno chiesto di risolvere tutto, di trovare una soluzione definitiva, ma di iniziare a dare. Vorrei, infine, ricordare alcuni nomi dei salvati. Nour che è venuta con Papa Francesco di ritorno da Lesbo, con il marito Hassan e che ripete continuamente che “siamo tornati alla vita”, commuovendosi. Negli occhi hanno il terrore dei bombardamenti, la sofferenza per aver dovuto lasciare Damasco, la casa, gli affetti. Loro ricordano i parenti e gli amici morti sotto le macerie. Hanno rischiato di morire ogni istante e lo hanno fatto per il loro bambino, che da quando è stata colpita la sua casa ridotta a macerie, parla pochissimo, per molto tempo dalla sua bocca non è uscita neppure una parola. Possiamo essere angeli per loro, realizzare i sogni, difendere la vita. Esserlo ci fa emergere il meglio di noi. Aiutiamo la speranza perché non si muoia così. E la preghiera per loro sia un corridoio che tutti i giorni ci unisca alla loro attesa.
Ripeto la preghiera che Papa Francesco ha recitato a Lesbo. Ci aiuta tanto oggi. “Dio di misericordia, Ti preghiamo per tutti gli uomini, le donne e i bambini, che sono morti dopo aver lasciato le loro terre in cerca di una vita migliore. Benché molte delle loro tombe non abbiano nome, da Te ognuno è conosciuto, amato e prediletto. Che mai siano da noi dimenticati, ma che possiamo onorare il loro sacrificio con le opere più che con le parole. Ti affidiamo tutti coloro che hanno compiuto questo viaggio, sopportando paura, incertezza e umiliazione, al fine di raggiungere un luogo di sicurezza e di speranza. Come Tu non hai abbandonato il tuo Figlio quando fu condotto in un luogo sicuro da Maria e Giuseppe, così ora sii vicino a questi tuoi figli e figlie attraverso la nostra tenerezza e protezione. Fa’ che, prendendoci cura di loro, possiamo promuovere un mondo dove nessuno sia costretto a lasciare la propria casa e dove tutti possano vivere in libertà, dignità e pace. Dio di misericordia e Padre di tutti, destaci dal sonno dell’indifferenza, apri i nostri occhi alle loro sofferenze e liberaci dall’insensibilità, frutto del benessere mondano e del ripiegamento su sé stessi. Ispira tutti noi, nazioni, comunità e singoli individui, a riconoscere che quanti raggiungono le nostre coste sono nostri fratelli e sorelle. Aiutaci a condividere con loro le benedizioni che abbiamo ricevuto dalle tue mani e riconoscere che insieme, come un’unica famiglia umana, siamo tutti migranti, viaggiatori di speranza verso di Te, che sei la nostra vera casa, là dove ogni lacrima sarà tersa, dove saremo nella pace, al sicuro nel tuo abbraccio”.

23/06/2016
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