Seguiamo Gesù, nostra speranza, che fa sua la nostra e che conosce le delusioni, le fatiche e le incoscienze della nostra vita. La speranza di Gesù non è per gli eroi ma per chi ama. È umile ma fortissima, non delude, permette di vincere le delusioni inevitabili e anche di non deludere la fiducia del prossimo. Crediamo nell’adempimento della Parola. La speranza non vive in una vaga e incerta promessa. La speranza affronta il suo contrario, non lo evita, non fa finta che non esista, non ci illude di esserne magicamente protetti. La speranza affronta la fine, l’umiliazione delle attese che poi si scontrano con lo sconsolato “vanità della vanità, tutto è vanità”, senza significato e senza futuro. La speranza si misura con la rassegnazione, con l’inutilità che nasconde la bellezza della vita. E la speranza deve affrontare la violenza che distrugge tutto e tutti, senza senso, e senza rispetto per il fiore bellissimo della vita e del nostro corpo. E la violenza ha tanti germi che la nutrono e la propagano, come l’individualismo e l’ignoranza, il pregiudizio fisico e razziale, il sarcasmo che sa solo distruggere e si compiace di ciò, la reattività epidermica che crediamo giustificata dalla paura. “Io sono la vita” e oggi io sono la speranza, dice Gesù. Io. Non impone una lezione di doveri, alcune ipotesi, una probabilità lontana e per pochi. Io. In questi giorni, che sono santi perché illuminati dal suo amore (perché siamo santi perché Lui è santo!), incontriamo Gesù, la sua persona da conoscere, amare, seguire. Mettiamo il nostro cuore davanti al suo per trovare cuore vero, i sentimenti umani e, finalmente, quello che siamo per davvero. Guardiamo Lui per lasciarci guardare dal suo amore che purifica e perdona. Guardiamo Lui per imparare a guardare il prossimo. Nel Vangelo di Giovanni la sua condanna a morte viene pronunciata proprio per la resurrezione di Lazzaro. Gesù muore per gli amici, per dare vita, muore perché la speranza non muoia, e perché la speranza non sia scantonare il male ma vincerlo.
Nelle nostre città e nei nostri cuori c’è molto odore di morte: lo vediamo nei modi volgari e violenti che umiliano il prossimo, osceni, esibiti, pieni di disprezzo e di pregiudizi, aggressivi e imbroglioni, che cancellano la dignità di ogni essere umano, rendendo l’altro un nemico o un pericolo e non una persona. Facendo credere che la forza brutale sia efficacia e sicurezza, che il male si vinca con il male mentre, in realtà, ne diventa solo sciocco e pericoloso complice, e così fa crescere altra paura e rabbia. In questi giorni seguiremo un condannato a morte. La morte è l’espressione ultima del male, e cresce quando vince l’indifferenza.
Io sono la speranza, continua a dire Gesù a Betania, davanti a persone sconsolate. Dopo quattro giorni si capisce che il sonno è morte e misuriamo qualcosa che è sempre faticoso accettare: l’assenza, la fine, la definitività, il per sempre. Noi, che così poco vogliamo scegliere qualcosa, che crediamo poco all’amore e che sia più forte delle inevitabili turbolenze e del peccato, e che non pensiamo sappia aggiustare quello che il divisore rovina e rompe, rimandiamo le scelte e, poi, ci arrendiamo fatalisticamente di fronte alla morte. Lazzaro, amico di Gesù, sono io, sono i nostri cari, quei pezzi della nostra vita che dolorosamente non ci sono più, sono i nostri fratelli più piccoli, amici di Gesù, nostro prossimo, sono la famiglia che Gesù ama. È il mio prossimo che muore, sono i soldati che combattono nelle trincee, sono i poveri emigranti dispersi in mezzo al mare. Guai a non salvarli e a non fare di tutto per salvarli perché questo significa condannarli, e perché della loro vita, come di ogni vita perduta, c’è chiesto e ci sarà chiesto conto!
Marta va incontro a Gesù. Si rivolge a Gesù con un’affermazione che di fatto appare un rimprovero: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. È, in fondo un attestato di fede, ma anche la constatazione che non era lì. Marta non smette di sperare, anche se il giorno del Signore è l’ultimo e la vita non la vedo risorta oggi. I martiri non smettono di sperare, “confessori della vita che non conosce fine”. Lo fece Etty Hillesum che vinse con la speranza la barbarie del nazismo che l’avrebbe uccisa. “Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli”, scriveva e pregava così: “Dalle tue mani accetto tutto come viene, mio Dio. So che è sempre un bene. Ho imparato che un peso può esser convertito in bene, se lo si sa sopportare” e continuava: “Non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri”. Aveva capito una cosa importante: “Cercherò di aiutarti, mio Dio, affinché Tu non venga distrutto dentro di me. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi”. Ecco la speranza.
“Tuo fratello risorgerà”. È la nostra speranza che non delude, che libera dall’odore di morte, dalle sue abitudini e interessi. Questo chiede pazienza, cioè affrontare le prove. Noi non speriamo perché non siamo provati, anzi, è proprio nelle prove che sentiamo l’umile e fortissima forza della speranza. “Attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo”. La pazienza nutre e difende la speranza. “Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano, infatti, l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura. Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal qui ed ora, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza”.
Gesù lo sappiamo “scoppiò in pianto” (Gv 11,33-35). Per sperare bisogna disperarsi, piangere e fare nostra la domanda di futuro. Gesù non fa scomparire il male ma patisce la sofferenza, la fa propria e la trasforma vivendola. Gesù professa la sua fede: “Io so che tu mi dai ascolto”. “Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà”. E lo iniziamo a vedere oggi, nei tanti segni della vita che risorge, ad iniziare dal nostro cuore. Per questo restiamo in silenzio ad adorare la croce, che non è adorare la sofferenza ma l’amore, la vera volontà di Dio, e scegliamo di amare, perché in essa vediamo la luce della Pasqua, l’inizio della salvezza, la vittoria su chi le croci, con la complicità folle degli uomini, continua a costruirle. Egli non porta un po’ di benessere o qualche rimedio per allungare la vita, ma proclama: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv. 25). Siamo chiamati a togliere le pietre di tutto ciò che sa di morte, che nasconde la morte, compresa la critica distruttiva verso gli altri, l’offesa, la calunnia, l’indifferenza verso i poveri. Togliamo queste pietre per vedere fiorire la vita. Gesù ricostruisce la comunità, perché insieme ai fratelli viviamo l’anticipo del Regno dei cieli e il suo amore che ridona la vita.
Un non credente recentemente ha detto: “Ho sempre creduto insieme a Nietzsche che quella cristiana fosse una visione sminuente della vita terrena, ridotta a una valle di lacrime in attesa del riscatto. Ho capito che il messaggio evangelico contiene una celebrazione della vita e una formidabile ribellione contro la morte. La promessa della vita eterna è la più grande rivoluzione immaginata”. Ha proprio ragione!
Lasciamoci trafiggere il cuore da un amore così disarmato e disarmante. Togliamo le pietre dal cuore, seguiamo Gesù che non salva se stesso, che non scappa dalla croce ma la vince amando, con la vera forza che combatte il male e dona vita.
Diceva Martin Luther King: “Con lui noi possiamo passare dalla fatica della disperazione alla serenità della speranza. Con lui noi possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia”. Oggi. Sia questa Pasqua così per noi e per il mondo.