veglia pasquale

Bologna, Cattedrale

Dopo che sull’altura del Golgota quel tragico venerdì tutto era stato compiuto e la vicenda singolare del Figlio di Maria sembrava ingloriosamente e definitivamente conclusa; dopo che la compagnia dei discepoli, inerte e ammutolita, aveva trascorso – senza più voglia di credere, di fare qualcosa, di vivere – la plumbea giornata del sabato, all’alba del terzo giorno si profila una prima timida reazione alla sconvolgente catastrofe: un piccolo gruppo di donne si recano al sepolcro di Gesù, “portando con sé gli aromi che avevano preparato” (Lc 24,1).

Il loro cuore è colmo di dolore e di amore, ma è vuoto di speranza. Pensano solo di tributare le estreme onoranze tradizionali a un defunto che fino a pochi giorni prima le teneva legate a sé in un dolce vincolo di ammirazione e di affetto; un vincolo che ormai (ne sono tutte malinconicamente rassegnate) era stato per sempre spezzato. La loro intenzione è quindi solo quella di imbalsamare un cadavere.

Imbalsamare Cristo! E’ l’improbabile impresa che si ripresenta in diverse epoche, non esclusa la nostra, quando si assume di fronte al suo “Corpo”, anzi al “Cristo totale” che è la Chiesa, l’atteggiamento di chi magari la rispetta, perfino l’apprezza come ispiratrice e custode di opere d’arte, addirittura la sostiene e l’aiuta per la sua azione socialmente benefica, a patto però che essa non si ritenga più una protagonista della storia, non inquieti più la falsa pace delle coscienze sviate, rinunci ad ammonire coraggiosamente ogni uomo a non confondere il bene col male.

A questa “mummificazione” onorifica il Cristo non ci sta, lui che “è risorto dai morti e ormai non muore più: la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9); non ci sta neanche il “Cristo totale” che è attivo nei secoli e – senza invadere campi non suoi, ma proponendo instancabilmente il traguardo del Regno eterno – non si lascia estromettere dagli spazi e dagli interessi dell’esistenza di quaggiù.

Arrivate al luogo della sepoltura, le donne trovano “la pietra rotolata via”, ma “non trovano il corpo del Signore” (cfr. Lc 24,2-3): il sepolcro è vuoto!

Tutto dunque è già avvenuto; tutto è avvenuto nell’oscurità e nel silenzio della notte. Il più alto prodigio – anzi la realtà che nell’universo è centrale e rimane come ragione perenne di novità e di vita soprannaturale – è stata avvolta dal segreto di Dio e sottratta a ogni esplorazione curiosa.

Questo è d’altronde lo stile prediletto da colui che opera le sue meraviglie preferibilmente nell’interiorità e nel nascondimento. Ed è una lezione di sapienza divina che ci può essere utile: Dio non si cura troppo della spettacolarità e degli indici di gradimento.

La risurrezione – anche la risurrezione morale e spirituale di ogni uomo – comincia dal di dentro. Anche perché essa non è tanto chiassoso mutamento di appartenenze politiche, passaggio sbandierato da uno schieramento a un altro, alternanza di divise esteriori, quanto rivolgimento sostanziale del modo di pensare, di amare, di comportarsi, di valutare le dottrine, le persone, gli accadimenti.

La nostra personale risurrezione necessariamente inizia dalla conversione del cuore, che del resto è stata anche la primizia dell’annuncio evangelico (cfr. Mc 1,15) e ne rimane il contenuto sostanziale. Il Redentore crocifisso e risorto – con l’efficacia che scaturisce dal suo sacrificio e dalla sua gloria pasquale – la immette e la rende operante nell’esistenza di ogni uomo, che non voglia deliberatamente chiudersi a questa proposta di salvezza.

“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5). I messaggeri celesti, che si accostano alle donne “in vesti sfolgoranti” (cfr. Lc 24,4) non fanno tanti complimenti e, si direbbe, con bonaria ironia vanno al nocciolo della questione.

Potremmo meritare anche noi tale l’ironia, se cedessimo alla tentazione – magari nell’intento di essere “aperti” e dialoganti con tutti – di assimilare agli altri colui che è intrinsecamente unico e inconfondibile.

Il problema di Gesù è universale: nessuno, che non rinunci a riflettere, riesce a schivarlo per l’intera durata dei suoi giorni. Tutti in qualche modo ne percepiscono il fascino, tutti in una forma o nell’altra lo cercano. Ma Gesù va cercato dove di fatto si trova; diversamente risonerebbe ancora il rimprovero angelico: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”.

Non lo si deve cercare nella variopinta schiera dei fondatori di religione, ai quali non lo si può affatto paragonare. E non solo e non tanto per l’assoluta superiorità del suo insegnamento; ma soprattutto perché essi tutti giacciono nella polvere, mentre lui – come proclama la parola di Dio – è “il primo e l’ultimo e il Vivente”. “Io ero morto – egli ci dice – ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (cfr. Ap 1,17-18).

Non lo si deve cercare tra i molti insigni maestri dell’umanità: per quanto possano essere ricche di luce le loro dottrine, essi non hanno come lui sconfitto la grande Nemica.

Non lo si deve cercare tra gli uomini grandi che hanno segnato di sé la storia umana: nessuno di loro è, come lui, oggi veramente, realmente, fisicamente vivo.

“Non è qui: è risorto!” (Lc 24,6). Questa è la grande novità della Pasqua, che da quel mattino di aprile dell’anno 30 provoca l’umanità e costringe ogni uomo a una scelta.

Ma tutti noi che siamo qui, in questa santissima notte, per la misericordia di Dio la scelta giusta l’abbiamo già fatta: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).

14/04/2001
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