celebrazione della passione del Signore, venerdì santo

Bologna, Cattedrale

Davvero “tutto è compiuto” (cfr. Gv 19,30). Il Figlio di Dio si è donato interamente: “ci ha amati sino alla fine” (cfr. Gv 13,2).

Saremmo anzi tentati di dire che così abbia anche “perso tutto”. Il suo stesso corpo non gli appartiene più; non appartiene neppure alla Madre, che lo aveva generato, né ai discepoli, che erano ormai la sua famiglia. Giuseppe d’Arimatea lo deve chiedere infatti al procuratore romano, che magnanimamente lo concede. E solo dopo l’assenso di Pilato, il nuovo padrone, si può procedere alla sepoltura.

Sulla cima del Golgota, relitto solitario dell’immane tragedia, rimane la croce. Appare quasi la nostra unica eredità; l’eredità che in quella tremenda e benedetta sera viene consegnata alla sventurata stirpe di Adamo e si colloca per sempre al centro della contaminata e dolorante storia degli uomini.

E nella nostra vicenda la croce definitivamente si inserisce come il solo messaggio di speranza che ci sia mai arrivato, come il segno di ogni possibile salvezza, come la raffigurazione sorprendente e inattesa dell’inaudita misericordia del Dio Creatore e Padre verso di noi.

Perciò stasera non concluderemo questa commossa rievocazione del sacrificio che ci ha redenti e rinnovati, senza procedere a un rito insolito di esaltazione e di gloria per questo strumento già di ignominia e di morte, che adesso è divenuto l’emblema della nostra rinascita e il pegno, per così dire, che le porte del Paradiso si sono riaperte per tutti, a cominciare dal ladro crocifisso e pentito.

Dal legno della croce in tutto il mondo è venuta la gioia, perché proprio dall’alto di quel patibolo il Signore dell’universo e dei cuori ha inaugurato il suo Regno, e “perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce ogni realtà della terra e del cielo” (cfr. Col 1,19-20).

Impariamo dunque a guardare continuamente alla croce, come alla fonte di ogni nostro autentico bene. Dalla croce sgorga quella verità “cattolica”, cioè totale, che nessuna sopravveniente moda culturale riesce mai a travolgere e nessun “sapere” modernamente acquisito può pensare di mettere fuori gioco. In particolare, dalla croce ci viene insegnato che la sola forza capace di riscattarci effettivamente dal male e dalla disperazione è l’amore: solo l’amore comprovato dal sacrificio e dalla donazione di sé -l’amore verso Dio e verso le immagini vive di Dio (che sono gli uomini) di cui Gesù sulla croce ci ha dato una splendida prova – è in grado di assicurare un rinnovamento non illusorio e un progresso umano che alla fine non risulti più costoso di quello che vale.

Impariamo a guardare alla croce, ma sempre con gli occhi illuminati dalla fede: allora l’antico orribile strumento di condanna, che significava punizione e morte, ci si manifesterà come il vessillo vittorioso dell’unico vero Re e l’annuncio a tutti noi di liberazione e di vita. E ciò che ancora oggi è aborrito da chi non ha la fortuna di credere, come un simbolo assurdo di angoscia e di pessimismo insensato, brillerà alla nostra intelligenza come la chiave interpretativa dell’enigma dell’universo, la ragione della nostra forza, la garanzia del nostro destino di felicità inalienabile. Perché sta scritto, ed è divina rivelazione che non ci è consentito di censurare: “La parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1 Cor 1,18).

Gesù stesso, preannunziando la sua crocifissione, l’ha presentata come l’inizio del suo trionfo e l’attuazione del disegno salvifico del Padre: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

In ogni tempo, una cristianità degna di questo nome ha tenuto desta l’attenzione affettuosa e riverente alla croce di Cristo tra i suoi atteggiamenti più fedelmente custoditi e più cari. Nel segno della croce ogni preghiera si inizia e ogni momento significativo della vita si conclude. Non c’è ambiente di rilievo, in cui si svolge la nostra esistenza personale e associata, che non sia tradizionalmente santificato da questo richiamo all’evento del Golgota. All’inizio del secolo ventesimo le genti d’Italia sono andate a gara nell’erigere sulle cime dei loro monti più alti l’insegna dell’amore che ci ha salvati.

Sono tutti esempi di fede vigorosa e di saggezza soprannaturale, impartitici dai nostri padri, e non devono andare perduti.

Badate, noi non vogliamo imporre il marchio di Cristo a nessuno che lo rifiuti. Non sono i discepoli del Crocifisso – che sul Calvario non ha inflitto violenza ma l’ha subita – ad aver bisogno di essere richiamati ai valori della tolleranza, del rispetto di ogni convincimento e di ogni culto, della libertà religiosa. Ma non per questo essi sono disposti a nascondere o a velare pavidamente il santo segno, per onorare il quale schiere di martiri non hanno esitato a versare il loro sangue.

Faccia il Signore che non possa mai riferirsi nemmeno lontanamente alla cristianità dei nostri giorni, quanto l’Apostolo delle genti scriveva con accorata franchezza ai suoi interlocutori di Filippi: “Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo” (Fil 3,18).

La risoluzione più opportuna e più necessaria, però, da prendere nella sera del Venerdì Santo, è quella di ravvivare nella nostra mente, ma soprattutto di rendere generosamente e coraggiosamente operante nel nostro comportamento la severa ed esigente parola di Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 9,34).

Allora, in virtù di questa sostanziale coerenza tra quello che crediamo e quello che siamo, potremo anche noi ripetere con verità l’auspicio formulato da san Paolo: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

13/04/2001
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