Omelia Messa del 9 maggio nel monastero del Corpus Domini

La vocazione di ognuno di noi è nella vita concreta, anzi ci fa passare dall’esistenza, chiusa in sé, a pensarsi per gli altri e nella storia degli uomini. Niente di ciò che è umano è estraneo alla Chiesa e al cristiano, perché niente è estraneo a Dio. La mia e nostra vita è immersa in questo pezzo di cammino, davvero breve in realtà e con tanti fratelli e sorelle che ci anticipano nel cammino e ci ricordano dove siamo diretti.

Siamo legati ad una comunità concreta e siamo per la chiesa tutta perché siamo mandati alla grande messe del mondo, a patire da un campanile e in un’ora, il presente, perché solo così abbiamo futuro.

Oggi è la giornata dell’Europa. Il Vangelo serve il sogno di unire, di superare le frontiere e fu proprio, non a caso, un mistico cristiano, laico, Robert Schumann, a chiedere il 9 maggio 1950, la creazione di una Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionata ai pericoli che la minacciano”, e i pericoli sono sempre presenti. Allora erano evidenti, usciti dalle macerie della guerra. Ma non lo è anche oggi e non ci sono tante macerie da ricostruire?

La sua forza era nel Signore, di cui si sentiva uno strumento per fare del bene in politica. E la politica è alta quando è disinteressata o meglio ha un unico interesse, quello comune, in questo caso il comune era l’Europa. E’ cristiano combattere il male con il perdono e l’amore, per cui interrompere la catena di odio e vendetta che ha portato alla violenza e a due guerre mondiali.

Viveva il vangelo che insegna ad amare il nemico, ma a combattere il male, il divisore che impedisce il dialogo. “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Le istituzioni europee “sarebbero un corpo senza anima se non fossero animate da uno spirito di fraternità fondato su una concezione cristiana di libertà e di dignità della persona umana”, scriverà nel 1953.

Per questo mi sembra importante rileggere oggi l’invito di Papa Francesco, che non è rivolto solo ai responsabili, ma direi anche per tutti noi: “Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa è potuta risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha permesso di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’intera famiglia e si sostengano a vicenda.

Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.

Il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi, afferma il Papa, è “ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone” e che ha, quindi la persona al centro! Una persona perseguitata negli anni della guerra ha lasciato un commento rivelatore. Feuchtwanger parlò della “cortese indifferenza verso le pene altrui” che corrisponde al modo in cui il diavolo si manifestò in Francia, ma era così ovunque e lo è anche oggi.

Il diavolo nella Francia degli anni ‘40 non era un diavolo particolarmente abietto, che traeva piacere da divertimenti di tipo sadico, ma piuttosto il diavolo dell’incuria, dell’incoscienza, della pigrizia del cuore, della convenzione, della routine, appunto quel “diavolo che i francesi chiamano, con felice espressione, je–m’en–foutisme”, cioè non mi importa. Ed è proprio questo diavolo che dobbiamo combattere, dentro di noi e nelle nostre relazioni con il prossimo. C’è un legame stretto tra l’individualismo e nostalgie identitarie che non hanno né memoria del passato né visione per il futuro.

Questa consapevolezza ci introduce all’altra memoria di oggi, quella delle vittime del terrorismo, il giorno in cui venne ucciso Aldo Moro. Lo stesso giorno, desidero ricordarlo, la mafia uccideva Peppino Impastato. E’ una memoria dolorosa, di tanti uomini e donne, di chi ha pagato con la vita la crudeltà del terrorismo, di persone che hanno servito le istituzioni e la nostra società.

Per noi qui a Bologna ricordiamo la strage del 2 agosto e di Ustica, l’Italicus e il Rapido 904, Marco Biagi e desidero ricordare anche Roberto Ruffilli, che qui insegnava. Preghiamo per loro e per i loro familiari, la cui sofferenza, tante volte, è stata aggravata da difficoltà materiali, a volte con l’amarezza della solitudine, finita la notizia e si diventa lontani, inevitabilmente, e si perdono storie, famiglie, vedove, bambini cresciuti guardando una fotografia.

“Ricordare significa anche non rassegnarsi mai nella ricerca della verità”: quante opacità, ritardi, a volte di chi doveva garantirla, spingono a non dimenticare e a compiere tutti gli sforzi per onorare le vittime. Non dobbiamo mai accettare come normale il terreno di cultura del terrorismo, vigliacco e folle, che arriva a colpire innocenti, bestemmiando la propria fede o i propri ideali, frutto di menti intossicati da intossicatori spesso nel web ma anche sui giornali che incitano alla violenza con il linguaggio, tanto che si cancellano i sentimenti più umani.

Quante complicità da sconfiggere, che si nascondono nell’indifferenza, nell’odio, nella corruzione, nell’arte di cercare i nemici e non il nemico che è il male, di dire le cose che convengono e non quelle vere, che spiegano e servono. Dobbiamo difendere e fare funzionare le istituzioni, che chiedono di essere servite come il dovere più alto, mai piegarle al proprio interesse perché sono le mura della nostra casa comune. E in questa casa ci vivono gli uomini. Se le istituzioni sono piegate a interesse di parte o di superficiale interesse immediato, è un pericolo per tutti.

Ecco perché è appassionante essere sacerdote oggi. Parlare a tutti, come con i pagani perché la parola è per tutti. Sento tanto vero per me ila amara considerazione di Gesù, rivolta a Filippo: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto?”. Sì, l’abitudine e i modi di pensare chiusi e senza passione non mi fanno conoscere il Signore.

Si conosce solo amando non parlando di Lui; cambiando il cuore, vivendo per gli altri e non viceversa. Il sacerdote è per la comunione, questo è il suo servizio. Non impone il suo carisma ma ama e aiuta quello dei fratelli, gli dona valore come Gesù che indica la fede nascosta in ognuno, aiutando a mettere al centro solo Lui e difendendo questo. Il carisma è quello della comunione da servire, di costruire comunità, relazioni, che passino per noi ma al centro abbiano Gesù, nella libertà del Vangelo e dello Spirito.

Ricostruiamo la nostra casa e rendiamo le nostre comunità famiglia, compiendo le opere grandi di Dio, quelle dell’amore, quelle che si vedono soprattutto nei piccoli gesti quotidiani, possibili e fedeli, non una volta, ma sempre. Servizio e gioia, e sempre una gioia nuova, perché è vero che il cammino si apre sempre davanti a noi e che Dio è sopra e anche dentro di noi. E qualcosa che non smetto proprio di comprendere e che solo alla fine capirò. Ma che intanto mi consola e mi dona tanta forza.

09/05/2020
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