Messa in memoria di don Luigi Di Liegro

“Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. I frutti dello Spirito non restano mai legati alla persona e non finiscono con questa. In realtà anche i semi della divisione, delle ferite nella vita del prossimo, del cattivo esempio si trasmettono, in maniera inquietante e implacabile, e producono frutti terribili, come vediamo nella guerra che ha una genesi favorita proprio dalle dissipazioni, dalle divisioni. Il male genera morte, inquina l’aria, acceca i cuori, fa crescere anche a distanza di tempo frutti di sofferenza. Per questo, come abbiamo cantato nel salmo, è “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi”, perché resta “come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono”. A distanza di venticinque anni questo albero che è stato don Luigi Di Liegro continua a indicare la speranza, l’impegno e la responsabilità per raggiungerla, il sacrificio che questa richiede, il dovere di tenerla viva. È un albero che ricordiamo in una stagione di poca speranza, quando tanti sogni, progetti, illusioni, sembrano appassirsi, segnati dalla delusione, ma anche dall’autoreferenzialità che tutto rende vano.

Era un uomo chiaro don Luigi, scomodo, non rinunciatario, perché appassionato a preparare quello che ancora non c’era, a regalarlo a chi non lo aveva e del quale riconosceva i diritti. Intercettava i problemi che si presentavano, anche quando erano soltanto all’inizio. Senza perdere tempo e cercando risposte, non accontentandosi di enunciazioni, come avvenne per i malati di AIDS e la creazione di Villa Glory, che tante polemiche suscitò allora, affrontate con fermezza da don Luigi. Penso agli stranieri, all’accoglienza che aveva indicato con determinazione, e che oggi ancora affrontiamo dimentichi di tanta storia (siamo rimasti alla “Pantanella” quanto a risposte e a sistema di accoglienza e integrazione!), impostandola con un approccio solo difensivo, di sicurezza, non volendo rendersi conto di quello che è successo, che succede nel mondo, che succede a casa nostra. Con fermezza, dentro e fuori la Chiesa don Luigi seguiva Gesù che si rivolgeva ai farisei, a quel fariseo che c’è in ognuno di noi, mettendo in guardia dal credersi a posto per il poco che si fa.

Non accettava un cristianesimo ridotto a rispetto di alcune regole e non del comandamento dell’amore, e una società civile che si accontenta di dare le risposte che riesce o che convengono, e non quelle che servono e che convengono ai poveri, tanto che i diritti diventano favori o concessioni casuali e benevole, mai impegni, e quindi certezze, su cui poter contare e costruire il proprio futuro. Non accettava un cristianesimo lontano dalla vita, privo dell’ansia che viene dalla “giustizia e dall’amore di Dio”. E queste lo rendevano capace di riconoscere, senza cercare catalogazioni astratte, le tante sofferenze del prossimo, chiunque fosse, intercettandole, commuovendosi, denunciandole, dandogli voce, cercando e facendo cercare soluzioni. Chiedendo alle istituzioni di farlo, iniziando a farsene carico.

Tra queste, oltre alla casa, all’ambiente, agli stranieri, ai disabili, ai senza fissa dimora, ai rom, al carcere, desidero ricordare i malati psichiatrici, allora come oggi così difficili da riconoscere, da accettare e da affrontare con il necessario coinvolgimento di tutti. Tanti servizi innovativi, risposte che hanno generato altre risposte e avviato consapevolezza, cultura, riflessione. Insomma, guardava la realtà senza sconti e senza pregiudizi, anzi liberando da questi così come dal pietismo o da una logica meramente assistenziale. Il suo fare feriva l’osservanza esteriore, le etichette cristiane vuote di significato, un’idea di Roma che doveva mantenere un’apparenza cristiana, che si voleva rendere cristiana senza rispondere alle attese di carità e giustizia. Quelle, invece, da cui era necessario partire per un Vangelo credibile e autentico.

L’ammonimento che abbiamo ascoltato oggi in un Vangelo che non abbiamo scelto – quello delle letture del tempo ordinario – ma che come sempre è lampada per i nostri passi, ci ricorda che la giustizia e l’amore sono da cercare, senza trascurare le altre! La giustizia e l’amore animavano l’impegno sociale di don Luigi, radicale, “politico” nel senso migliore e più alto del termine, senza paura di sporcarsi anzi diffidando del bianco dei sepolcri, di una vita non compromessa. E don Luigi non tralasciava certo “le altre cose”. Lo aveva imparato dalla JOC francese, della quale aveva portato a Roma la tensione di un cristianesimo sociale e di cui parlava spesso in seminario e nelle comunità. Ortodossia e ortoprassi non erano due dimensioni avverse, ma complementari, come deve essere. E sempre con la libertà dell’impegno e tanta obbedienza – a volte molto sofferta – alla Chiesa.

Avvenne così nel servizio che con tanta intelligenza il cardinale Poletti gli aveva chiesto, dando molta fiducia, da pastore buono qual era, e come deve essere anche per averla: don Luigi univa l’ufficio pastorale con quello della carità. Questa visione, purtroppo, non è stata molto seguita, per cui così poco la catechesi insegna a riconoscere nel prossimo lo stesso corpo di Gesù, la carità sembra essere piuttosto una passione solo di alcuni specialisti e non il comandamento richiesto a tutti, indispensabile per amare e riconoscere Cristo nella sua dimensione spirituale e concreta. Don Luigi sognava una Chiesa vicina alla gente, tutta carità perché segue Gesù che non ama i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulla piazza, che non cerca la rilevanza sociale come i forti di ogni tempo – spesso sepolcri imbiancati – ma la rilevanza che viene dallo stare accanto ai fratelli più piccoli di Gesù, senza assistenzialismo, insulto per lui e per il legame che ci deve unire. Mi penso con lui, non do quello che avanza o quello che posso!

Cambio la sua condizione, non gli do qualcosa! Una Chiesa libera perché non intimorita e compromessa con i vari dottori della Legge (ce ne sono molte varianti, vecchie e nuove, acculturate e rozze, di segno opposto ma sempre dottori di qualche legge che svuota l’amore). Sognava la veracità della Chiesa e della Chiesa di Roma, che presiede nella carità e quindi deve viverla. Ne cercava sempre una dimensione fraterna e comunitaria. Aveva mille impegni, ma non rinunciava al suo habitat nella Rettoria a piazza Poli, sempre aperta, e nella Parrocchia a Giano, piccola Chiesa piena di tanta bellezza, dove univa lotta per gli allacci delle fogne e tanta preghiera.

Il suo ricordo ci aiuti a non nasconderci nei mezzi termini, nelle categorie astratte, negli ecclesiasticismi di ogni provenienza, nella chiusura che impedisce di parlare con tutti, nell’accettazione rassegnata dell’impossibilità. “Che grazia essere sacerdote. Se il Signore avesse dovuto guardare ai miei meriti avrebbe dovuto mettersi le mani nei capelli”, voleva che la Chiesa fosse una cellula umanizzante della vita sociale, “luogo in cui tutti i problemi degli uomini possono essere dibattuti”. Scriveva don Luigi: “Come nell’eucarestia incontri Gesù risorto sotto i veli del pane e lo devi riconoscere sotto i veli del povero, a tua volta devi lasciarti mangiare da lui sennò la fede è morta!”. Ecco perché il suo ricordo è così vivo e oggi, come allora, continua a confortarci, inquietarci, liberarci da tiepidezze e prudenze, da psicologismi egotici, per trovare noi stessi, individualmente e come Chiesa, nella compassione del Samaritano.

“Bisogna entrare nel mondo dei poveri e della sofferenza come vi è entrato Cristo: con umiltà e amicizia, riconoscendo le tracce dello Spirito che lo abita, promuovendo potenzialità, creatività, sete di dignità e di giustizia. Entrando nella storia dei poveri dobbiamo avere coscienza che questo mondo è abitato preferenzialmente da Cristo, attraverso lo Spirito che ne continua la missione: è una realtà dove Dio è accampato (incarnato). L’impegno di promozione dei poveri è lode a Dio”.

Grazie don Luigi. Per sempre.

Roma, Basilica dei Santi XII Apostoli
12/10/2022
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