È una memoria che ne contiene molte altre: di presbiteri, religiosi e chierici catturati e uccisi dai nazisti in provincia di Lucca, amici del popolo, martiri del Vangelo, testimoni di fraternità, profeti di pace. Con loro ricordiamo i tanti cui la loro vita era legata, le loro comunità con le quali la loro memoria si confonde. Essi sono i profeti della nostra pace: l’hanno voluta, sognata, l’hanno consegnata. La pace ha un prezzo: loro l’hanno pagato. Noi, spesso, non ne facciamo neanche la manutenzione, tanto la diamo per scontata. Ventotto. Ricordiamo in particolare don Aldo Mei, parroco di Fiano di Pescaglia, ma anche ognuno di loro, così diversi per età e famiglia religiosa, uniti tutti dall’amore per il prossimo che avevano imparato da Gesù. Erano “pieni di Spirito”, quello che viene dall’alto ma che scende nel nostro profondo e ci fa scoprire che siamo fatti per il cielo, aprendoci gli occhi verso il basso, sul prossimo. Hanno mostrato la forza dei deboli, forza non da superuomini, anzi, quella più umana, che ci rende umani anche quando tutto intorno è violenza bestiale. In loro, e insieme a loro, il deserto è diventato per tanti un giardino di pace e di speranza, in un mondo deserto di vita, frutto dell’ideologia pagana nazista e fascista che annullava Dio e il prossimo. Praticare la giustizia darà pace e questo è possibile ad ognuno. Anzi, inizia da noi, come per questi testimoni che non hanno detto “che c’entro io?”, ma “io c’entro, se non lo faccio io non lo fa nessuno, e cosa divento se non lo faccio, cosa diventano se non lo faccio?”. E amare Gesù ha portato loro tanta forza, ha liberato dalla paura. Chi non cerca la giustizia fa crescere l’ingiustizia, inevitabilmente produce odio, violenza, prepara la guerra. Anche chi non fa niente! Preoccuparsi per sé, e credere che si possa starsene in pace da soli, rovina la pace! La giustizia inizia sempre dagli atteggiamenti personali di fedeltà al bene comune. Per i cristiani, però, la giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei. Non può essere, dunque, quella dell’occhio per occhio, tragicamente e follemente applicata, con le conseguenze terribili che sono sotto gli occhi di tutti, logica che giustifica la vendetta. Qual è la differenza dalla rappresaglia? Le morti degli innocenti sono un indifferente prezzo aggiuntivo da registrare? Occhio per occhio e il mondo diventa cieco. Cieco! Ma lo capiamo solo dopo, se cadono le bende dagli occhi, come disse Hans, uno della Rosa Bianca, e si iniziano a chiamare le cose con il proprio nome, a scegliere di diventare operatori di pace e giustizia. Altrimenti si diventa prigionieri della logica della vendetta, ancor più se non si cerca alternativa nel diritto e nel rispetto dei diritti, tanto che il perdono o il rispondere al male con il bene è reso impossibile o giudicato debolezza. L’equilibrio del terrore è, in realtà, sempre incerto. In questi giorni ricordiamo Hiroshima e Nagasaki. Lo abbiamo fatto troppo poco, tanto più in una stagione in cui follemente si evoca il nucleare come possibile e si dà per scontato il riarmo. Centinaia di migliaia di persone furono inghiottite in un attimo da quel fuoco di morte. San Giovanni XXIII lo scriveva sessant’anni or sono (PT 60): “E se una comunità politica produce armi atomiche, le altre devono pure produrre armi atomiche di pari potenza distruttiva. Non è escluso che un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che mette in moto l’apparato bellico. Giustizia, saggezza e umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. La pace non la troviamo nell’equilibrio della paura, nella mai sicura logica del più forte, che energie e investimenti richiede, tanto che si riempiono gli arsenali e si svuotano i granai, si distruggono ospedali e case e si costruiscono di nuovo trincee. Di fronte alla pandemia di violenza e guerra che continua ad investire il mondo, viene da chiedersi: sono possibili le beatitudini? Non sono per persone di un altro mondo? Sono beati quelli che hanno fame e sete di giustizia? Sono beati gli operatori di pace? Don Aldo è beato, ma lo è stato e lo è rimasto anche quando il 2 agosto 1944 fu arrestato a Fiano, condannato a morte e fucilato a Lucca. Beatitudine è felicità vera, che affronta i problemi e li vince, non è benessere o sfuggire ai problemi, tanto che arriviamo a rimuoverli e a far finta che non ci siano per poi soccombere! Don Aldo aveva 32 anni. I problemi li affrontò e non se ne risparmiò nessuno! Dette gioia, fece sentire amati, protetti, sicuri, comunicò speranza. Cercò di soccorrere con ogni suo mezzo i parrocchiani e gli sfollati. Impartì i sacramenti ai partigiani sulle colline di Fiano, ciò vuol dire anche che ne era richiesto. Accolse presso di sé un giovane ebreo, Adolfo Cremisi, che non tradì a prezzo della sua stessa vita. Provvide alla protezione di altre famiglie in luoghi sicuri del paese. Mi ha colpito che era stato denunciato più volte dai fascisti, eppure non aveva smesso. Certamente ebbe paura, consapevole e lucido com’era, ma l’amore per Cristo e, quindi, per il prossimo, la difesa della giustizia, la libertà del cristiano – perché il cristiano è libero della libertà più grande, quella di amare – furono più forti. Temeva il peccato, ma non la morte, dissero di don Fornasini, ucciso anche lui ottant’anni fa vicino a Marzabotto, perché amava la sua gente. Don Aldo scrisse ai suoi in quella notte dell’Orto degli ulivi, uguale a quella di Gesù: “Babbo e Mamma, state tranquilli, sono sereno in quest’ora solenne. In coscienza non ho commesso delitti, solamente ho amato come mi è stato possibile. 1° Condanna a morte per aver protetto e nascosto un giovane di cui volevo salva l’anima. 2° Per aver amministrato i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete. Il terzo motivo non è nobile come i precedenti: aver nascosto la radio. Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’Amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono”. Ecco la beatitudine. “Viva Cristo, Re di Giustizia e di Carità e di Pace! Conservatevi tutti nella grazia del Signore Gesù Cristo – perché questo solamente conta quando ci si trova davanti al maestoso passo della morte – e così tutti vogliamo rivederci e starcene indissolubilmente congiunti nella gioia vera e perfetta della unione eterna con Dio in cielo. Un pensiero ed una esortazione caldissima a quei poveri fratelli che sono più lontani dalla pratica religiosa. Ho fatto troppo poco in vita per queste pecorelle più sbandate. Ora in morte l’assicuro che anzitutto per essi e per la loro salvezza offro la mia povera vita. Muoio anzitutto per un motivo di carità – per aver protetto e nascosto un carissimo giovane. Raccomando a tutti la carità. Regina di tutte le virtù. Amate Dio in Gesù Cristo, amatevi come fratelli. Muoio vittima dell’odio che tiranneggia e rovina il mondo – muoio perché trionfi la carità cristiana. Amate la Chiesa – vivete e morite per Lei – è la Vita e la Morte veramente più bella. Tutto il popolo ricordi e osservi il voto collettivo di vita cristiana. Fuggite tutti il peccato, unico vero male che attrista nel tempo e rovina irreparabilmente nell’eternità”.
È la consegna di una passione cristiana e civile, una testimonianza che chiarisce anche da che parte bisogna stare quando le varie forme di paganesimo, di idolatria nazionalista o di ideologie totalitarie, mettono alla prova la nostra fede. Pregava per le persone più distanti: per lui erano vicine! Per essere così dobbiamo disarmare i cuori, imparare a perdonare le offese, astenerci da false accuse o da qualsiasi durezza di linguaggio. Ognuno di noi è un seme da cui può crescere abbondante la pace. Lo teniamo per noi? Si perde. Il testamento di tutti questi caduti ci richiede di cercare oggi la giustizia e di essere noi operatori di pace, di vivere le beatitudini, quelle che ci fanno essere un giardino nel deserto del mondo, anticipo della gioia senza fine. Diceva don Mazzolari: “Il martirologio della Chiesa italiana è sprovvisto di acta ma le poche parole allora raccolte son grandi al pari dei lunghi silenzi che gli angeli gelosamente conservano, in attesa di poterli riconsegnare, monito e viatico agli scampati, perché hanno amato la giustizia e odiato l’iniquità, non si sono vergognati della tua legge davanti ai re”. L’onore che tributiamo a questi uomini che hanno dato la vita per la pace e la libertà, diceva Guardini, resterà un semplice gesto se non tentiamo di capire dove si gioca per noi l’istanza di un’eguale libertà e se non siamo pronti a portarla a compimento. Oggi. È la via della beatitudine.
Così pregava padre Turoldo davanti ai morti della guerra: “Dio della vita Padre di tutte le creature, ti vogliamo pregare con la voce di tutti i nostri morti. Noi ti chiediamo, o Dio, che le loro voci serene risuonino, pur nel pianto e nello strazio degli affetti, fiduciose di un avvenire radioso di dignità e di rispetto per tutti, specialmente per i poveri, pur nell’atrocità infinta di tutte le umiliazioni subite, ti chiediamo che le loro voci risuonino tanto forte nelle coscienze di noi e di tutti coloro che vivono ancora, quanto è forte ora il silenzio delle loro morti. Ti chiediamo, Signore, che nessuno di queste migliaia di condannati sia morto invano. Ti chiediamo, Signore, che per tutte le lettere dei condannati a morte d’Italia e d’Europa ci sia sempre un destinatario sicuro, pronto a riceverne il messaggio e a trasmetterlo di generazione in generazione. Affinché sorgano un mondo e una vita che loro hanno invocato per noi con il loro sacrificio. E così non avvenga mai più, mai più ciò che è avvenuto, ciò che purtroppo è potuto accadere. Per cui Signore invochiamo perdono e pietà”. Amen.
