Oggi è la festa della Presentazione al Tempio di Gesù, festa che ci aiuta a vivere questa domenica, e tutte le domeniche, con gioia, presentandoci al tempio spesso con la confusione nel cuore ma sempre per incontrare la Sua presenza che dà luce e speranza. E ci presentiamo come siamo, lasciandoci incontrare dal Suo amore, verità della nostra vita, pieno non di giudizi ma di misericordia. La fede viene dall’ascolto, dal quel Verbo che continua a farsi carne nella Sua parola e nel suo Corpo. Ascolta chi attende.
Tutti abbiamo tante attese nel cuore, che a volte ci inquietano, altre volte pensiamo non più possibili e restano come malinconia o pessimismo. La disillusione è un veleno che addormenta tutto, spegne la speranza e quindi la vita, perché speranza è vita e, come ha detto un Vescovo, finché c’è speranza c’è vita. Gesù non si disillude mai, non perché non abbia motivi, ma perché ci ama e non smette di amare anche dopo le delusioni. Noi, invece, vogliamo vedere subito e ci stanchiamo facilmente. Pensiamo che l’attesa sia tempo perso, manifestazione di difficoltà o di non capacità, come se la speranza sia un tasto che deve offrire immediatamente il risultato. Attendere è come un seme, e perché questo dia la spiga ci vogliono tempo e pazienza. Speranza e pazienza sono sorelle e camminano insieme. Il cristiano è un uomo di fede, non ha capito tutto ma crede che quello che ascolta non è una promessa vaga, rassicurante. E la fede ci aiuta affrontare le difficoltà, perché senza ci arrenderemmo subito.
In Oriente chiamavano la Presentazione la festa dell’incontro. Dio incontra chi attende e chi attende trova risposta alla domanda. Chi incontra il Signore impara ad incontrare gli altri, perché chi vede Gesù “vede” il prossimo, riconosce l’amico, la persona cui voler bene e sa trovare in tutti il motivo per voler bene ad ognuno. Simeone a Anna erano due vecchi che non smettevano di sperare e di attendere. Non si sono rassegnati. Non sono andati in pensione!
Appena vedono il bambino Gesù, infatti, Simeone lo prende sulle sue braccia e Anna è piena di entusiasmo si mette a parlare a tutti di Gesù. Hanno visto solo un bambino, ma Lo hanno riconosciuto. È luce in un mondo pieno di buio, terribile. Il buio produce buio, il contrario di quello che abbiamo fatto oggi accendendo le nostre candele, dove un cuore acceso accende altri cuori. La guerra uccide e riempie di odio che uccide ancora. Buio enorme della violenza e dell’incapacità di incontrarsi. Il buio è quello della tristezza quando tutto è finito, quando la vita ti porta via la vita, come in un bombardamento o, più in piccolo, nell’alluvione, per chi ha perso i suoi ricordi, e qualcuno anche la speranza. Il Signore non si mostra imponente, non ci conquista con l’onnipotenza, ma con l’umanità e ci aiuta a riconoscere in questa la Sua presenza, per farci suoi.
Gli uomini cercano la forza imponendosi, possedendo, umiliando, nell’esibizione, comandando, nel successo. Dio amando. È veramente fragile un bambino, e un adulto può fargli del male anche lasciandolo solo. Non dovremmo, in realtà, mai lasciare solo nessuno, anche fisicamente, e soprattutto dobbiamo fare in modo che abbia chi si prende cura di lui. Perché tutti abbiamo sempre bisogno di amore. La forza vera che ci salva è l’amore, è prendersi cura dei più fragili per diventare, insieme, più forti.
Quando incontriamo Gesù, luce, diventiamo luminosi, come quando siamo amati. Non vediamo quello che non c’è, ma diventiamo capaci di vedere quello che è nascosto, di riconoscere la bellezza che pure c’è nella vita e che, spesso, rimane nascosta. Siamo portatori di luce prendendoci cura gli uni degli altri, prendendo tra le nostre braccia la debolezza di quel bambino, perché la vera forza è servire, ed essere suoi discepoli significa abbassarsi. Lo diceva Annale Tonelli: “La vita ha senso solo se si ama. Nulla ha senso al di fuori dell’amore. Certo dobbiamo liberarci di tanta zavorra. Ma ci sono metodi pratici, ci sono strade, ci sono indicazioni chiare, c’è Dio nella celletta della nostra anima che ci chiama.
Se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo vivo. In questo inferno di mondo dove pare che Lui non ci sia, lo rendiamo vivo ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito. Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi. È nell’inginocchiarmi perché stringendomi il collo loro possano rialzarsi e riprendere il cammino, o addirittura camminare dove mai avevano camminato, che io trovo pace, carica fortissima, certezza che tutto è Grazia”. Tutto diventa Grazia, cioè amore senza contraccambio, come per Simeone e Anna. La speranza vede nel presente e riconosce i frutti, i miracoli che l’amore compie nella nostra vita perché sia quella per cui Dio l’ha voluta. Sollevare i piccoli e dare luce.
Oggi ricordiamo un uomo che è stato proprio come Simeone e che ha preso in braccio tanti bambini per sollevarli dalla loro condizione e dargli loro futuro. Con semplicità, quasi con naturalezza, cominciò ad ospitare a casa sua e poi, come avviene quando la famiglia diventa numerosa, costruì un’altra casa. Ma sempre casa. Può un cristiano non fare nulla quando vede un piccolo Gesù senza pane dell’amicizia?
Ricordiamo oggi Padre Olinto, dovremmo dire don ma è sempre stato chiamato Padre, e con ragione, perché lo è stato per tantissimi “piccoli” che ha amato con la tenerezza e la fermezza di un Padre. Lo ricordiamo oggi per il centenario della prima celebrazione eucaristica dopo la fine della sospensione dal ministero. Rimase obbediente e accettò questa punizione che lo faceva soffrite tantissimo. Cento anni fa proprio qui celebrò la sua seconda “prima messa”. Era arrivato a Bologna nel 1924 che divenne la sua città di adozione. Qui insegnò dal 1924 al 1930 al Galvani e, fino al 1948 (età pensionabile), al Minghetti. Aveva trovato la carità che cercava nella Parrocchia di San Giovanni in Monte sotto la guida di Mons. Faggioli, con molte associazioni, tra le quali si distinguevano il “Gruppo amici del Vangelo” e la “Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli”.
Una scuola di formazione, tanto che vi lavoravano uomini di grande fede, come il prof. Baroni, docente universitario, il prof. Fantini, il futuro direttore dell’“Avvenire d’Italia”, Raimondo Manzini, e il futuro Cardinale Mimmi. Alla seconda aderirono, insieme al prof. Olinto Marella, i suoi allievi, alcuni dei quali diventarono personaggi di grande rilievo, come il prof. Elkan, il prof. Poggieschi e l’avv. Bersani. Lo fece con passione (ma si può amare senza passione?), capacità e dedizione. Il Cardinale di allora esaudì la richiesta e, non solo fece sollevare Marella dalla sospensione a divins, ma lo inserì nel clero diocesano, dandogli l’incarico di curare religiosamente l’agglomerato di povertà alla periferia di Bologna fuori Porta Lame, chiamato “Baraccato”.
Dopo sedici lunghi anni di assenza dall’altare, Don Olinto ebbe la gioia di ritornarvi e, proprio in San Giovanni in Monte, di fronte agli amici ed ai confratelli, celebrò la Santa Messa il 2 febbraio 1925. Il chierichetto di allora Oscar Lari, afferma che, in seguito, a Don Olinto fu affidata la S. Messa domenicale, nella stessa Chiesa, delle ore 12. In pieno inverno arrivarono anche a Bologna un gruppo di famiglie italiane espulse, insieme a molte altre, dai Turchi dopo i fatti dell’Asia Minore. Si era in pieno inverno, con nevicate intermittenti. Le famiglie, tutte con molti bambini, furono sistemate fuori Porta Lame, all’estrema periferia della città d’allora. Si trattava di vere e proprie baracche, con i sostegni di legno e, come copertura, delle lamiere. Dalle fessure passavano fiocchi di neve. La condizione di quelle famiglie, nel rigido inverno bolognese, era tra le più pietose. Il prof. Marella, nel suo elegante clergyman, era venuto con un gruppo di universitari. Restarono tutti molto commossi ma il più commosso di tutti, in modo che in un certo senso ci colpì, apparve tuttavia il prof. Marella.
A Marella non interessava tanto la cultura, quanto l’uomo e quindi la cultura vera. Con rinnovato spirito umiliò se stesso presentando il cappello ai passanti e facendosi mendicante. Il suo titolo era “Barbone di Dio”. Avevano bisogno e così, con il cappello in mano, si recò nel bar Zanarini di Bologna, ai molti clienti che assiepavano il locale chiese di mettere qualche centesimo nel suo copricapo come mendicante. Chi lo conosceva sapeva che vi era anche un altro motivo per questa scelta. Ed era quello adempiere al passo del Vangelo che recita: «Qualunque cosa avrete fatto per questi piccoli è come l’abbiate fatta a me». Tutto nasceva dall’eucarestia e dalla preghiera. Sempre senza rimproverare nessuno testimoniava l’amore e il suo esempio era più efficaci di ogni invettiva. Non tanti discorsi ma quello che conta, non programmi teorici e generali, quanto invece la concreta originalità del Vangelo e della carità. Ha avuto speranza, la sua sofferenza per non poter celebrare non lo ha incattivito, perché sapeva che essere figlio e non schiavo, gli avrebbe permesso di sentirsi figlio e di ritrovare la pienezza della comunione. Non ha smesso di aspettare e di vedere la presenza del Signore. Portiamo la luce del Suo amore a tutti come fece il beato Olinto Marella, guardando quello che serve a loro e illuminandoli con l’unica luce che sconfigge le tenebre: l’amore.